venerdì 11 dicembre 2015

Il nazismo secondo Tinto Brass: "Salon Kitty"

"Salon Kitty" si basa su una delle fantasie più gettonate nei porno di quart'ordine, quella che ha dato vita ad un vero e proprio filone, il nazi-porno. Il film si apre con la selezione di donne bellissime ma anche intelligenti e soprattutto di comprovata fede nazista per sollazzare gli ufficiali nel Salon Kitty, bordello di Berlino rimesso a punto per l'occasione. L'obiettivo è avere donne ben addestrate e di fiducia pronte a raccogliere informazioni e denunciare eventuali traditori, ma il raffinato sistema spionistico (consolidato per buona misura da microspie e nastri registrati) è ben mascherato. Le splendide e spietate SS devono essere prostitute credibili, perciò durante la selezione devono avere dei rapporti sessuali random in una stanza affollata di soldati e poi con soggetti verso i quali certamente provano una nazistissima repulsione, dagli ebrei agli zingari ai mutilati.
Tra le candidate che superano brillantemente le prove, sacrificando alla missione pudore e gusti personali, c'è Margherita, una giovane di famiglia borghese, devota al Terzo Reich e piena di carattere, capace di immolarsi a una causa e di prendere decisioni radicali. È il modello del perfetto fanatico: non stupida ma indottrinata, tanto ferma da piegare l'intelligenza al credo, abbastanza esaltata da obbedire a qualunque ordine del suo regime e sacrificare il proprio orgoglio (emblematica la scena in cui Wallenberg, il tenente delle SS a capo dell'affare Salon Kitty, durante un normale colloquio in salotto la costringe su quattro zampe).






Sì, il film prende le mosse dalla solita zozzeria vintage, ma non si riduce a questo. Tinto Brass non manca di unire l'utile al dilettevole (rappresentato dagli splendidi nudi femminili e dalla trama che scivola destramente verso il film di spionaggio). In questo caso (come in "Paprika", film di denuncia contro la legge Merlin, o nel leggero e colorato "Monella", che prende di mira la rigidità maschilista e ipocrita della società, esaltando di contro l'emancipazione femminile), l'"utile" è rappresentato dalla non velata e non banale analisi politica e sociale. Tinto Brass suggerisce una sua lettura del fenomeno nazista molto vicina a quella offerta da Bertolucci nel film del 1970 "Il conformista", che rielabora e accentua alcuni aspetti dell'omonimo romanzo di Moravia. Un aspetto comune al romanzo del 1951 e al film di Bertolucci (vicino a "Salon Kitty" anche per la rappresentazione simmetrica, grandiosa e immobile degli interni dei luoghi di potere) è la correlazione tra fede nazi-fascista e un orientamento omosessuale latente e rifiutato. Marcello, il protagonista-conformista, è un criptogay e cerca di sfuggire alla sua condizione di avvertita "anormalità" nascondendosi in un culto di massa, che lo confonda in mezzo agli altri, e soprattutto in un culto della virilità, del machismo, del gallismo. Slavoj Žižek, in un libro per altri versi deludente, fa riferimento alle allusioni omosessuali che formano il sostrato goliardico al cameratismo dei soldati, controbilanciato da un'esplicita quanto violenta omofobia. Anche Tinto Brass, pur senza farne un cardine di "Salon Kitty", sfiora la tematica: i camerati che vediamo nel suo film non si limitano a condividere spazi e attività fisiche, esercitandosi nella scherma o beandosi romanamente nella sauna. Quello che vediamo è un ricorrente affollarsi di nudi maschili nella stessa stanza, anche laddove l'economia del racconto non lo richiederebbe: paradossalmente, i genitali maschili non sono molto esposti nelle scene che vedono un singolo uomo alle prese con una donna, nel bordello o altrove (più volte vediamo Margherita coinvolta in attività sessuali che vedono l'uomo quasi completamente vestito), ma sono numerosi ed evidenti nelle scene di gruppo, dove solo uomini nudi o seminudi riempiono un ambiente cameratesco da cui le donne sono escluse o in cui sono ospitate marginalmente, una sorta di androceo sormontato dalle aquile del Reich e dal mito fallico.
A questa latente omosessualità maschile abbinata all'immancabile omofobia militaresca, fa ovviamente da complemento la misoginia: la figura femminile disprezzata, significativamente, non è la prostituta ma la moglie. Il tenente Wallenberg umilia Margherita nell'ambito sessuale ma mostra verso di lei una sorta di rispetto cameratesco, proprio in quanto lei stessa SS, mentre tratta la moglie come una sguattera o perfino come un cane (la donna deve servirlo e poi allontanarsi senza fiatare, viene cacciata via diverse volte e con modi bruschi, nessuno risponde ai suoi saluti, è spesso costretta in ginocchio o in posizione china e sottomessa). Anche qui è possibile un richiamo ad un altro film italiano, che pur con ben altri mezzi espressivi esplora in modo delicato e approfondito questa ambiguità della società nazi-fascista, che spinge l'uomo verso la donna vista come oggetto sessuale, contemporaneamente reprimendo e umiliando la moglie, relegata a massaia e fattrice, lo splendido "Una giornata particolare" di Ettore Scola.
A più riprese e in diverse forme, compresa dunque quella della gerarchizzazione sessuata della famiglia, si presenta la tematica del potere. Al riguardo è notevole il cammeo di Aldo Valletti, il Presidente di "Salò o le 120 giornate di Sodoma" di Pasolini: in questa pellicola, che precede di poco l'uscita di "Salon Kitty", il Presidente è tra i quattro potenti e perversi sui cui vizi si impernia tutta la narrazione, che pone continuamente in relazione l'(ab)uso sessuale e l'esercizio del proprio potere. Potere che, come rivela Wallenberg nella confessione che Margherita riesce a strappargli, è fondato su un credo strumentale (quello del Terzo Reich): gli ufficiali, i superiori, i vertici della piramide non credono a ciò che propagandano, ma ci crede in buona fede il popolo, e proprio questa devozione al nazionalsocialismo li rende utili, ubbidienti, sudditi perfetti e relativamente contenti.

Anche sotto l'aspetto formale "Salon Kitty" non manca di dettagli curati e notevoli. Ossessivo è l'uso degli specchi: molte scene raffigurano gruppi e coreografie, e quasi tutte le altre riproducono artificialmente l'effetto comitiva moltiplicando la figura dei pochi protagonisti (Margherita che si aggira seminuda nella camera da letto non si limita a riflettersi in uno specchio, ma è moltiplicata cinque-sei volte). Quasi sempre lo specchio non è uno ma sono molti, tutti centrati sullo stesso oggetto-soggetto, sempre un corpo umano, che si trova riprodotto al centro dell'inquadratura e anche nelle periferie, incornicia se stesso. È pressoché assente lo specchio come strumento e simbolo di dualità, contrapposizione e doppio, perché l'immagine riflessa lo è sempre più volte: si crea contemporaneamente un effetto-folla e un'attenzione smodata, morbosa su un singolo soggetto (spesso Margherita) che riempie di sé praticamente tutta la stanza. Da un lato, cogliamo il solito vezzo voyeuristico di Tinto Brass, amplificato dall'immagine riflessa, e dall'altro lato indoviniamo dei riferimenti psicoanalitici o, ancora, all'uomo-massa perfetto per il regime: Margherita, nazista ideale ed efficiente, è uguale a tantissime altre Margherita che la circondano senza distinguersi in alcun modo. Agostino Gemelli scriveva: 


«la miglior qualità del soldato nella guerra di massa e di lunga durata è appunto l'assenza di ogni qualità: l'essere rozzo, ignorante, passivo. Solo così è possibile appieno quella trasformazione della sua personalità che lo rende capace di adattamento alla trincea e all'assalto, che fa di lui un materiale altamente manipolabile, un perfetto pezzo della macchina bellica».

Torna così, ancora, l'uomo-folla che si sforza di essere il Conformista, l'Uomo Qualunque che nel partito nato nel 1946 raccoglie l'eredità più grossolana del fascismo (che ancora oggi ci perseguita nelle varie forme del populismo di destra e del qualunquismo "né di destra né di sinistra"), l'individuo-massa di Ortega y Gasset che "delega in bianco" il suo potere-pensiero, obbedendo e sottomettendosi ad un potere forte e rassicurante, perdendo la propria unicità e individualità. Le tante Margherita allo specchio sono i tanti visi anonimi della folla adorante, in cui Marcello Clerici de Il Conformista brama di perdersi, i tanti anonimi "Urrà" che si alzavano nelle adunate oceaniche. Le SS-prostitute di "Salon Kitty" sono i soldati perfetti di Agostino Gemelli, virtuose perché senza virtù, la cui qualità migliore è rappresentata da fede cieca, abnegazione, volontà di lasciarsi manipolare. Non a caso è proprio Margherita, la donna più forte di carattere e di più acuta intelligenza, a rompere l'incantesimo: innamorandosi di un traditore diventa diversa dalle altre, rompe la magia della folla, torna ad essere un singolo individuo chiamato in prima persona a prendersi la responsabilità delle proprie decisioni e azioni. Nel finale, brinda con Kitty alla caduta del Reich.



  • A chi volesse approfondire suggeriamo: "Bernardo Bertolucci. Il conformista", Franco Prono, Lindau (1998), libro che analizza il film in modo molto dettagliato, prestando attenzione anche ai molti rimandi psicanalitici.
  • Il libro a cui faccio riferimento è "Il segreto sessuale della Chiesa", Slavoj Žižek, Mimesis Edizioni (2010).
  • La citazione di Agostino Gemelli è riportata da Angelo Del Boca nel libro "Italiani bravi gente?", Neri Pozza Editore (2005), nel capitolo sulle colpe di Cadorna.

sabato 5 dicembre 2015

Le condizioni materiali della vita: "Blue Jasmine"


Due sorelle, Ginger e Janet/Jasmine: pur provenendo entrambe dallo stesso retroterra sociale e familiare, si ritrovano da adulte ad appartenere a due mondi enormemente distanti. Ginger, bassina e mora, vestita in modo casual e un tantino cafone, fa la cassiera in un supermercato di San Francisco. Jasmine, alta e bionda, estremamente elegante e dotata di accessori costosi, è la moglie di un pezzo grosso della finanza. La rovina della famiglia di Jasmine la spinge verso la sorella umile e salariata, in cerca di ospitalità e aiuto economico. Ormai vedova e povera, reduce da un grave esaurimento nervoso che ancora la disturba, deve reinventarsi una vita, preferibilmente non umile, e quasi ci riesce. Quasi.
In "Blue Jasmine", un Woody Allen reduce dallo scialbo tentativo di ritrarre le classi subalterne e la bellezza della vita semplice e quotidiana nel tremendo "To Rome with Love", torna a fare ciò che sa fare meglio: raccontare le vite patinate ma spesso meschine della borghesia. Rispetto per esempio a "Match Point", vediamo nel film interpretato da Cate Blanchett una classe alta meno stereotipata e vista con occhio meno benevolo. Mentre nel film del 2005 l'alta borghesia è formata di individui goderecci ma tutto sommato generosi, immancabilmente vittime della cupidigia dei più poveri (qualcosa mi ricorda "Il capitale umano"...), in "Blue Jasmine" è proprio dalla famiglia di Janet/Jasmine che si dipana la rovina, anche per la sorella salariata e il marito operaio. Infatti, la bionda Janet è vedova perché il suo geniale marito si è impiccato in cella, luogo in cui si trovava dopo un'indagine dell'FBI, che lo aveva rivelato come un ladro e un truffatore, capace di grandi donazioni e filantropia ma con soldi sottratti senza scrupoli anche a piccoli investitori. L'aspetto più doloroso della vicenda è che l'umile sorella Ginger aveva avuto, con suo marito, la chance di elevarsi dalla sua condizione sociale: avevano vinto un'enorme somma e, con fraterna fiducia, l'avevano affidata agli investimenti del cognato. Così, la famiglia più ricca ha continuato ad arricchirsi a discapito della più umile, che ha visto sfumare l'occasione di una vita, e tutto ciò nonostante il legame tra le due donne. Ginger non ne fa una colpa alla sorella, perché crede alla versione di lei: il ladro era lui, lei non sapeva nulla. Ma Janet/Jasmine è un personaggio "fasullo" (come viene a più riprese definita nel film stesso) fin dal nome, e la pervasività della sua falsità esploderà con tutte le sue conseguenze (e, retrospettivamente, rivelerà dei retroscena occulti) solo verso il finale.
Una scena mi è risultata un po' plastificata, un po' "film di Natale", ed è quella in cui Ginger e Chili, dopo la riconciliazione, giocano come bambini con un pezzo di pizza, mentre Janet si avvia col trucco colato e gli psicofarmaci in mano verso l'ultima tappa della rovina. Ad uno sguardo frettoloso, quella scena può trasmettere uno pseudo-significato, cioè un vuoto di significato, un luogo comune buono solo a ripulire la coscienza delle classi alte e a mantenere saldo il giogo sulle classi subalterne: quando si è più poveri si è più felici. Onestamente, non ritengo Woody Allen capace di una tale banalità e di una tale malafede, e la mia lettura mi pare dimostrata dal percorso compiuto dalla tragedia attraverso le vite delle due protagoniste: anche all'inizio del film Ginger era povera, e lo è ancor di più dopo essere stata truffata dal cognato. Viceversa, Janet/Jasmine è infelice sia all'apice della sua ricchezza, quando i lussi e la non-necessità di lavorare non bastano a risarcirla dei continui tradimenti del marito, sia una volta disintegrato il suo patrimonio. In realtà, la correlazione degli avvenimenti con la felicità in "Blue Jasmine" segue la traccia altrettanto borghese ma molto meno perversa del "sentimento": le due donne riescono a ricavarsi un pezzetto di felicità solo nell'illusione o nella concreta realizzazione dell'armonia di coppia e/o familiare. Il fattore economico è conteggiato per lo più come simbolo di altro, degli abiti casual in luogo delle borse Louis Vuitton, del lavoro come segretaria da un dentista piuttosto che quello di antropologa o di arredatrice. Ancora una volta, non è la ricchezza a fare la felicità né l'infelicità, ma a essere la spia visibile di un atteggiamento interiore della protagonista, delle sue ambizioni frustrate, del suo attaccamento ai beni materiali ma soprattutto ad una più alta concezione di sé. In un dialogo bellissimo spiega per quale ragione odiava l'idea di lavorare come commessa in un negozio di scarpe: non è tanto il basso stipendio rispetto alle rendite astronomiche a cui l'aveva abituata il marito truffatore, quanto l'umiliazione di dover servire donne dell'alta società che fino al giorno prima la invitavano ai loro ricevimenti. Umiliazione a cui Ginger, nata e rimasta in una classe sociale che la costringe a vendere il proprio lavoro per vivere, non avrebbe potuto sottrarsi. È questo che Jasmine non riesce a superare: non tanto la privazione materiale della ricchezza (vende le sue pellicce e i suoi gioielli) quanto la sofferenza mai sperimentata prima dell'impotenza sociale, dell'improvvisa povertà che di colpo le ha tolto la possibilità di scegliere che professione praticare, in che luogo abitare, come trascorrere il suo tempo. Il legame tra condizioni materiali della vita e risultati "immateriali" (frequentazioni, attività, spostamenti, svaghi) è mostrato con forza ma altrettanta attenzione è dedicata alla lotta interiore di Janet contro Jasmine, della donna contro il personaggio che ha fatto di sé, con il suo orgoglio e il suo calcolo, la sua pretesa di superiorità e la sua superba incapacità di ammettere la sconfitta.

giovedì 1 ottobre 2015

Ti racconto... il Giappone in 10 film

Giappone: pretesa davvero ambiziosa raccontarlo in soli dieci film. L'argomento è inesauribile e si può esplorarlo in mille direzioni. La lista di film che suggeriamo non potrebbe in nessun caso essere esauriente. Abbiamo quindi scelto alcuni film tra i più significativi e diversi, per epoca e per genere: ognuno riguarda una tappa storica del Paese del Sol Levante, un aspetto della sua cultura o un punto di vista sulla sua società.


1. Figlio unico (1936)



È uno dei maggiori classici del cinema giapponese, opera di Yasujiro Ozu, regista raffinato quanto prolifico. Come molti altri film di Ozu, Figlio unico offre uno spaccato di vita quotidiana che permetta di entrare educatamente all'interno di una famiglia giapponese per coglierne gli equilibri e i meccanismi più intimi. Il perno della narrazione è (come in Tarda primavera, Fiori d'equinozio e altri film del regista) la relazione genitori-figli. In particolare, protagonisti sono in questo caso la madre vedova e il suo unico figlio, che a causa delle misere condizioni familiari dovrebbe interrompere gli studi e fare propria la dura vita dei campi o della fabbrica. Il bambino è però molto studioso e capace e il suo maestro non sopporta che gli si precluda una maggiore istruzione soltanto a causa della sua bassa estrazione e della sua disgraziata situazione familiare: grazie alla sua intercessione (e a un pizzico di inganno), la madre accetta la sfida di nuovi sacrifici e di un lavoro ancor più duro per permettere al bambino di proseguire gli studi. La diligenza del bambino e i suoi ottimi risultati sembrano promettere un futuro roseo, che valga la pena dei tanti sacrifici affrontati. Confidando in una mobilità sociale che premi la fatica e gli sforzi, e che traduca la maggiore istruzione in un buon lavoro, la madre aiuta il figlio a trasferirsi a Tokyo vendendo i suoi ultimi beni. Lì, il figlio si ricava la buona posizione sperata e meritata, o almeno così crede la madre, fino a quando non si reca in città a trovarlo e scopre il tenero inganno con cui il figlio voleva proteggerla dal proprio fallimento. Madre e figlio devono arrendersi ad una società rigida che non ha pietà dei sacrifici né dell'impegno, che non premia le ambizioni, che frustra e violenta i desideri, e ritaglia un margine sottile per la consolazione negli affetti e nella solidarietà tra umili. Un film struggente simile per certi versi al nostrano Ladri di biciclette, che racconta la società giapponese degli anni '30 e in realtà anche la società occidentale di oggi.



2. Rashomon (1950) 




Film ampiamente apprezzato in Occidente, è opera di uno dei registi giapponesi più famosi, Akira Kurosawa (I sette samurai, Il trono di sangue, Dersu Uzala - Il piccolo uomo delle grandi pianure). Rashomon ha origini letterarie e un solido impianto narrativo, ma non si esaurisce in una trama lineare: al contrario, la trovata geniale del film, quella che gli conferisce il suo spessore filosofico ed ermeneutico, risiede proprio nell'assenza di una narrazione univoca. Lo stesso episodio è raccontato da tre personaggi diversi, chiamati a risponderne nel tribunale dello spettacolo, inginocchiati in uno scenario surreale col viso rivolto allo spettatore, e ognuno ne dà una versione diversa. La speranza nell'uomo salva in extremis il film dal completo nichilismo, e ciò che ne rimane è un senso acuto ma non disperato di fragilità e di piccolezza, la percezione visiva della mutevolezza della vita e della soggettività della sua interpretazione. Travolgente l'interpretazione di Toshiro Mifune, che con questo film si affaccia all'Occidente e diventa uno dei più famosi attori asiatici. Infine, un'attenzione particolare alla condizione della donna nel Giappone tradizionale, in cui perfino subire senza colpe uno stupro rende oggetto di biasimo e disprezzo.



3. I racconti della luna pallida d'agosto (1953) 





Il film di Kenji Mizoguchi non è solo un grande classico del cinema giapponese, ma anche un capolavoro indiscusso del genere fantastico. Ispirato a due monogatari intrecciati in un unico racconto delle travagliate vite dei protagonisti, il film incarna lo spirito del Giappone degli anni '50: da un lato, il ricordo fresco della tragedia della guerra, che si traduce in un senso di costante incertezza economica (il vasaio che si affanna a produrre troppi vasi e finisce col perderli e avere un enorme danno; la moglie sola che viene ridotta a prostituta, bisognosa e disonorata); dall'altro, la spinta irresistibile a rifugiarsi nel fantastico e soprattutto nel passato (si tratta di un film in costume ambientato nel XVI secolo), in un'epoca che non aveva conosciuto l'orrore dell'arma atomica né la disfatta dell'esercito imperiale, un passato insieme grandioso e rassicurante, espresso anche attraverso la magnificenza e l'accuratezza di ambienti, costumi e trucco.


4. Una tomba per le lucciole (1988)




Ottimo prodotto dello Studio Ghibli firmato Isao Takahata (regista del recente e ben accolto La storia della principessa splendente). È poco meno di un documentario sul Giappone della Seconda Guerra Mondiale, o meglio molto di più: alla rude rappresentazione di bombardamenti, ustioni e miseria accompagna la struggente poesia dell'amore fraterno provato dalla disgrazia, dalla voglia caparbia di sopravvivere, dal disperato bisogno di continuare a giocare anche tra le piaghe e la fame. Seita e la sua sorellina Setsuko, figli di un ufficiale della Marina Imperiale Giapponese e affidati alle cure della madre, si ritrovano presto travolti dalla guerra che devasta la loro casa e ampie zone della loro città, costringendoli a rifugiarsi da una zia meschina che approfitta di loro invece di aiutarli. Si ritrovano infine completamente soli contro l'inedia e le malattie, il bisogno di arrangiarsi e perfino di rubare, la violenza della società e dei bisogni più elementari. Infine, mentre le figlie dei ricchi rientrano a guerra finita nelle loro dimore di campagna, intatte e gravide di felici ricordi infantili, Seita è ridotto a uno straccione solo e disperato, privato dell'orgoglio nazionale che lo faceva fiero di suo padre e del suo Paese, straziato dalla colpa di non aver saputo proteggere la sua famiglia. È un film che non risparmia crudeltà e verità dolorose, nell'immagine come nel significato, dalla devastazione della guerra che nulla ha di onorevole al suo peso che ricade sempre, inevitabilmente, sul popolo innocente e sui soldati costretti al sacrificio.

5. Ecco l'impero dei sensi (1976)



È un film ispirato ad un episodio di cronaca nera che scosse il Giappone degli anni '30 e che vide una donna di nome Abe uccidere ed evirare il suo amante. Il film fu oggetto di feroce censura, in Italia come altrove, per via del suo carattere "pornografico": si mostrano più volte le parti intime dei protagonisti con una nonchalance quasi sconosciuta al cinema di quegli anni (quattro anni prima Ultimo tango a Parigi di Bertolucci veniva sequestrato e condannato alla distruzione per molto meno), oltre a fellatio e altre pratiche sessuali molto esplicite. A imperare sono, naturalmente, i sensi: a livello narrativo, trionfano sulla pudicizia, sulle buone maniere e sull'opportunità sociale, sulla razionalità e la prudenza, perfino sulla legge nel loro condurre infine alla mutilazione e all'omicidio; a livello "materiale", hanno il sopravvento sulla narrazione, il tatto e l'olfatto sono continuamente al centro della scena, l'udito è stimolato continuamente dai suoni e dalle musiche tradizionali più che dalle battute, fortemente sensuali e intensi sono anche i colori degli abiti e degli interni, fino al vivido rosso sangue che suggella il finale. Un film strano, materico, a tratti oscuro.


6. Lady Snowblood (1973)





Questo film si inserisce a pieno titolo nella nostra lista: oltre ad essere qualitativamente curato e stilisticamente ispirato, è pienamente rappresentativo del genere che tanto in profondità e in estensione ha influenzato il cinema giapponese e, attraverso di esso, quello occidentale. Revenge movie originale e per altri aspetti esemplare, tornato alla ribalta in Occidente (non esisteva né ancora esiste una versione doppiata in italiano) grazie alla mediazione di Kill Bill, racconta la storia di una protagonista femminile votata alla vendetta come la Sposa di Tarantino e O-Ren Ishi, personaggio che la ricalca finemente. Sorprendentemente moderno, movimentato senza essere banale e drammatico senza smarrirsi nello splatter.


7. Hana-Bi - Fiori di fuoco (1997)




I titoli di testa, fioriti di decorazioni naïf fatte a mano e variopinte, introducono un film che parla di yakuza e criminalità. L'ossimoro è palese e incarnato nello stesso protagonista: ex-poliziotto rude e tutt'altro che restio ad usare la violenza delle armi da fuoco, ma contemporaneamente tenero marito straziato dalla malattia della moglie e spirito sensibile che crea fiori di carta colorata. Lo stile inconfondibile di Takeshi Kitano, che nel film L'estate di Kikujiro dà luogo ad effetti buffi e giocosi da manga, in Hana-Bi - Fiori di fuoco produce sequenze asciutte e serie, per un film drammatico che si aggiudica il Leone d'oro a Venezia.



8. Departures (2008)



Vincitore del Premio Oscar nel 2008, è un film drammatico non completamente privo di toni da commedia, a cominciare dall'equivoco per cui un violoncellista ormai disoccupato cerca lavoro presso un'agenzia nella convinzione che si occupi di viaggi. In realtà, si ritrova presto a fare un mestiere simile al tanatoesteta, per cui in realtà non esiste un corrispettivo perfetto in italiano: più che curare l'aspetto dei morti, lavarli e truccarli, l'okuribito è propriamente colui che "accompagna alla partenza" il defunto attraverso un preciso rituale. È un lavoro solenne e commovente, che il protagonista impara ad effettuare con bravura e sentimento e soprattutto impara ad amare. Tuttavia, con la sua nuova attività viene investito dal tabù, un po' come i nostri becchini che vengono salutati con gesti scaramantici e scongiuri dai compaesani più indelicati.
Un film leggero e curioso che mostra allo spettatore occidentale aspetti culturali e rituali poco conosciuti del Giappone contemporaneo.



9. Si alza il vento (2013)



L'ultimo capolavoro di Hayao Miyazaki riceve il Premio Oscar come miglior film d'animazione, sbanca al botteghino e soddisfa la critica. È un canto del cigno invidiabile e meritato, che lascia però l'amaro in bocca, destinato com'è a chiudere un'epoca dello Studio Ghibli. Riprende alcuni dei tratti tipici del maestro giapponese, in particolare l'amore per le altezze e l'aeronautica che già aveva avuto espressione, per esempio, nel meraviglioso e significativo Porco Rosso. Racconta la storia di Jiro Horikoshi, personaggio realmente vissuto e già raccontato in un manga, progettista di aerei che fin da bambino fu ispirato dall'italiano Giovanni Battista Caproni. Si alza il vento racconta la sua vita, dall'infanzia segnata dalla miopia al periodo degli studi fino al matrimonio, con la delicatezza tipica del maestro Miyazaki e una cura estrema per i fondali, le parti meccaniche, i gesti amorevoli, gli interni che richiamano il cinema domestico di Ozu. Sullo sfondo, il Giappone tra le due guerre, la vita nei sanatori e la tubercolosi, il devastante terremoto del Kanto del 1923. Introducono e battezzano l'opera i potenti versi di Paul Valéry: «Si alza il vento!... bisogna tentare di vivere.»



10. Cold Fish (2010) 




Sion Sono, quello che un libro recentemente pubblicato da Caratteri Mobili chiama Il signore del caos, in Cold Fish condensa le contraddizioni della società capitalista contemporanea (non a caso, il film si apre con un carrello della spesa che viene riempito in modo convulso di pesce surgelato), l'alienazione che si spinge ben oltre il limite dello squilibrio, la violenza insensata, l'oscurità dei rituali che invece di esorcizzare il male sembrano catalizzarlo, dall'uso del forno a microonde (simbolo feticistico del consumo quotidiano e della vita familiare preconfezionata) all'affollarsi macabro e osceno di statue e simboli sacri nel luogo sconsacrato in cui si versano fiumi di sangue e si consumano vendette dementi. Un film dal ritmo serrato, suggestivo ed inquietante, imprevedibile e cruento.

martedì 29 settembre 2015

"Non permettere più che questo avvenga": satira, dissenso e opposizione

C'è un Viandante Male Informato che imbocca una stradina secondaria per raggiungere il mare. Mentre percorre a passo d'uomo (per non stressare le sospensioni) la via sterrata in mezzo agli uliveti, entra nel raggio visivo di un Bifolco Cazzaro. Il Bifolco Cazzaro guarda malevolo la vettura, presentendo chissà quali cattive intenzioni del guidatore. In particolare, è preoccupato dagli eventuali futuri nocumenti che potrebbero derivargli dal passaggio del Viandante Male Informato per quella stradina sterrata che scorre in prossimità dei suoi uliveti. Al che, per prevenire qualsivoglia danno, il Bifolco Cazzaro si mette a gambe larghe in mezzo alla via e brandisce il forcone verso la vettura. Il Viandante Male Informato inchioda. Abbassa il finestrino e domanda lumi. Il Bifolco Cazzaro sbraita: ma non sa il Viandante Male Informato che questa è una stradina privata? Onestamente no. Anche perché non è vero. E ancora, il Bifolco Cazzaro: non sa il Viandante Male Informato che chi passa senza autorizzazione da questa strada rischia una multa di millemila euro, cinque anni di galera e venti frustate? Ancora, il Viandante Male Informato non lo sa. E in effetti dubita anche che sia vero: segnali di proprietà privata non ne ha visti, divieti di transito neppure, passaggi a livello ringhiere recinzioni steccati reti palizzate fili spinati nemmeno. Non sapeva che passare di lì fosse proibito e soprattutto non sapeva che la pena commisurata fosse quel popò di pena annunciata dal Bifolco Cazzaro. Ma, dal momento che sa di essere Male Informato, il Viandante tentenna. Anzi, chiede pure scusa. Ingrana la retro e sparisce all'orizzonte in un nugolo di polvere, con gran soddisfazione del Bifolco Cazzaro che torna placido a badare alle proprie olive.

Ecco, un fatto del genere è successo alla Rai e a Fedele Confalonieri.

Il 16 novembre 2003 va in onda su RAI 3 la prima puntata di "Raiot - Armi di distrazione di massa", programma di satira condotto da Sabina Guzzanti. In questa prima puntata, la Guzzanti fa qualcosa che in pochi avevano avuto l'ardire di fare: tocca questioni realmente spinose per il capo del governo italiano, Silvio Berlusconi, invece di inserirsi nel rassicurante flusso della satira di regime, che non interroga realmente il personaggio ma lo canzona simpaticamente, umanizza e perfino un po' lusinga, tra una battuta sull'altezza e un'allusione alla frenetica attività sessuale.
In Italia il capo del governo controlla la programmazione della tv di Stato. All'epoca dei fatti, Silvio Berlusconi però non era solo il capo del governo, era anche il padrone di Mediaset, azienda che aveva e ha il controllo di tre reti televisive private di livello nazionale. Traducendo in pratica: se il proprietario delle reti televisive private è al contempo capo del governo, controlla l'intero spettro della televisione italiana.

Tornando a Raiot, dopo la messa in onda della prima puntata il programma viene sospeso dal Cda della Rai. Il motivo? Mediaset (nella persona di Fedele Confalonieri) aveva incassato malvolentieri gli espliciti riferimenti della Guzzanti ad alcune attività illecite di Berlusconi e conseguentemente querelato la Rai per diffamazione, chiedendo poco meno della testa della Guzzanti: 20 milioni di euro di danni. La Rai senza batter ciglio (e sopratutto senza verificare se le accuse siano fondate) si sottomette al volere pretenzioso di Mediaset.
Il Presidente del Consiglio non è sempre ricorso a simili sotterfugi per interposta persona al fine di censurare le voci a lui sgradite. Pochi mesi prima della sospensione di Raiot, mentre si trovava a Sofia, aveva sentenziato il cosiddetto editto Bulgaro:

«L'uso che Biagi... Come si chiama quell'altro? Santoro... Ma l'altro? Luttazzi, hanno fatto della televisione pubblica, pagata coi soldi di tutti, è un uso criminoso. E io credo che sia un preciso dovere da parte della nuova dirigenza di non permettere più che questo avvenga.»

Con l'editto Bulgaro sono scomparsi gli ultimi spiragli di libera informazione sulla tv di Stato. Come fa notare la Guzzanti nel suo documentario "Viva Zapatero", le questioni politiche vengono affidate a giornalisti che in realtà non fanno domande e a Bruno Vespa (che rientra in una categoria tutta sua), mentre gli approfondimenti televisivi vengono dedicati alla cronaca nera, al gossip, alla madonna che piange sangue e alle ricette di cucina.

Tipico programma di approfondimento politico post-editto bulgaro.

Flashback.

Negli anni Ottanta Silvio Berlusconi era solo un povero imprenditore milionario, molto triste perché la magistratura voleva impedire che le sue reti televisive trasmettessero a livello nazionale, basando il proprio diniego sull'insana pretesa del monopolio di Stato. Il povero imprenditore milionario non era ancora entrato in politica, e l'unico modo per eliminare quell'illiberale invenzione comunista era affidarsi al fraterno amico Bettino Craxi (all'epoca Presidente del Consiglio). Bettino non perse tempo ed emanò i cosiddetti (e cosiffatti) "decreti Berlusconi".
Faziosamente chiamati "Berlusconi" ma ovviamente non correlati in alcun modo a Silvio Berlusconi, tali decreti permettevano per la prima volta in Italia ai privati di far trasmettere le proprie reti televisive a livello nazionale. Il monopolio soccombe e nasce il libero mercato televisivo. Libero davvero, perché sottrae i maggiori mass media all'invasiva e pervasiva autorità dello Stato, dando in cambio voce a chiunque. O almeno a chiunque sia così ricco da potersi permettere almeno una rete privata, tanto che ad oggi tra i beneficiari dei suddetti decreti non si annoverano ancora né una casalinga di Treviso, né un bracciante lucano, né un pastore abruzzese.

Ritorno al presente.

Per quanto riguarda la richiesta di risarcimento di 20 milioni di euro, la procura di Milano giudica le accuse della Mediaset infondate perché quanto detto durante la puntata di Raiot non era diffamatorio ma rispecchiava pienamente la realtà. Gli accusatori sono rimasti contenti lo stesso, perché in fin dei conti il Bifolco Cazzaro non avrebbe tratto una godimento particolare nell'infliggere venti frustate al Viandante Male Informato: gli bastava che nessuno percorresse la strada che costeggiava il suo uliveto. Chiusa la trasmissione, che la pretesa del risarcimento fosse infondata non importa più a nessuno, dal momento che evidentemente esso non era il reale obiettivo, quanto un pretesto. Non ci si scusa con la Guzzanti, non si riapre la trasmissione, semmai si estrae dal cilindro qualche altro motivo per scagliarsi contro la comica: la sua non sarà diffamazione ma non è neanche satira. Satira, per queste illustre menti, sarà quella di Antonio Ricci che ammicca benevolmente al priapico padrone, o meglio ancora la "satira di centro-destra" che Luca e Paolo hanno senza vergogna esibito a Sanremo qualche edizione fa, come se ce ne fosse un gran bisogno. Epurata la televisione dalle voci sgradevoli rimane soltanto il coro belante a cui "Il terzo segreto di satira" dedicava, dal più dimesso e casalingo palco di Youtube, uno dei primi video:

«Questa è satira che piace a me,
piace molto al centro-destra,
fa felice pure il re.»

sabato 22 agosto 2015

Quando il falso vale più dell'originale: "Copia conforme" di Abbas Kiarostami

Il termine "originale" ha solitamente un'accezione positiva (a meno che non sia usato come sinonimo di "eccentrico" al fine di descrivere le abitudini di una gattara). L'originale è l'autentico ed è contrapposto all'artificioso, al fasullo, così come al volgare, all'impuro, al caricaturale. L'opera d'arte (va da sé) è autentica e in ciò si distingue dalla crosta e dal prodotto seriale; ma anche la vita è autentica, e perciò migliore rispetto alle ipocrisie sociali o alle vane ostentazioni (la vita mondana à La Grande Bellezza), ma anche moralmente più nobile della semplice messinscena. Se l'arte imita e riproduce la vita, tanto nell'una quanto nell'altra è possibile che l'autenticità (nelle sue diverse accezioni) sia messa in pericolo da un più o meno abile falsario. Copia conforme (2010) di Kiarostami gioca sulla possibilità che questa eventualità sia un bene e si diverte a creare, in un meccanismo un pizzico surreale ma fluido, un falso che sia più "autentico" dell'originale. Più autentico perché più denso, più pieno di senso, più ricco di sentimento, meno freddo e cinico, meno imbarazzato, più passionale e tenero, più pregno di calore familiare. Scopo del film è mettere in scena questo paradosso, facendo incrociare l'arte e la vita in una rete di similitudini che tre anni più tardi sarà il perno di un altro film italiano apprezzato all'estero, La migliore offerta di Tornatore. Anche quest'ultima pellicola mostra le implicazioni (sentimentali più che apodittiche) dell'antinomia autentico/imitazione e pone l'interrogativo sulla qualità del falso: l'autentico è ugualmente o parzialmente presente nell'imitazione, nel falso che cerca di somigliargli (di esserne copia conforme)? E nell'interrogativo emerso dalla comparazione dei due film spicca una sfumatura di significato legata all'intenzione: con quale fine si produce un falso? Per ingannare o per ingannarsi? Semplicemente per giocare a produrre una realtà (come versione "autentica" della messinscena come falso) che per quanto temporanea sia migliore di quella vera? Il film di Tornatore è facilmente fruibile e possiede tutte le caratteristiche (compreso lo spettacolare colpo di scena finale) propizie alla diffusione mainstream; molto più ricercato (e ambizioso) è il film di Kiarostami. Il suo esperimento è geniale, il risultato mi piace e non mi piace. 
Il pretesto narrativo è l'incontro tra Elle, una gallerista, e James, uno scrittore inglese venuto in Italia per presentare un libro incentrato proprio sulla tesi per cui una copia può ben valere quanto l'originale (o, secondo il film di Tornatore, in ogni falso c'è qualcosa di autentico che gli conferisce valore). I due si rivedono dopo la presentazione e trascorrono qualche ora insieme, dapprima in un clima irrigidito dalla scarsa conoscenza reciproca. Poi (occhio, sto per spoilerare) una barista che li scambia per marito e moglie fornisce senza saperlo il pretesto per trasformare l'originale (due sconosciuti che si indirizzano a vicenda approcci intellettualistici e arringhe filosofeggianti) in un falso ben più caloroso: senza accordarsi, in una simultanea e giocosa intesa, i due iniziano a recitare le rispettive parti. Si trasformano in una coppia sposata piena di risentimenti e questioni in sospeso, e il gioco non si interrompe neppure quando restano da soli. Continua per ore, vede il coinvolgimento di altri sconosciuti e l'intesa dei due protagonisti è così spontanea che tutti cascano nel tranello. Il falso è così ben fatto da essere preso per autentico anche dagli esperti (i passanti che danno consigli a James su come andare più d'accordo con "sua moglie"), ma non solo: è migliore dell'originale, più desiderabile, ma soprattutto (e paradossalmente) più verosimile del vero, perché solo dopo che la messinscena è iniziata tra i due inizia uno scambio umano spontaneo e caloroso, molto più autentico delle formalità e dei convenevoli con cui inizialmente tentavano di intavolare le loro conversazioni. I due iniziano a rinfacciarsi colpe passate e a ricordarsi eventi mai verificatisi, facendo così emergere i propri caratteri e le proprie debolezze in un modo così verosimile da ricostruire un intero passato inesistente e da manifestare una complicità che, nel loro gioco, si è solidificata in quindici anni di matrimonio (notevole, al riguardo, che Elle sia separata dal vero marito: anche da questo punto di vista, la copia è "meglio riuscita" dell'originale, nel senso che questo matrimonio falso resiste a tensioni e recriminazioni, e i due finti coniugi cercano di muoversi verso una riconciliazione che Elle non è riuscita a produrre nel suo matrimonio reale).
Locandina francese, molto più significativa
di quella italiana: ritrae Elle intenta a camuffarsi
per costruire la "copia conforme" di se stessa.
Il film è caratterizzato da una pulizia formale ammirevole e da una sobria eleganza. Tuttavia, alcuni elementi mi hanno reso questo film appena indigesto, a cominciare dall'intellettualismo un po' esasperato che anima tutta la prima parte e che trascina per lunghi e lunghi e lunghi minuti argomentazioni verbose e fredde. L'iperrealismo tarantiniano dei dialoghi è spalmato in modo omogeneo e il risultato è una verbosità piuttosto piatta e uniforme, oltre che un po' futile. Ma se la prima parte ha questa pecca, la seconda è a mio parere tarata da una ben più irritante: la sceneggiatura sembra essere solidamente impiantata su un insieme di luoghi comuni. Il punto di vista iraniano-francese-belga culmina nell'italianità rappresentata dal cantare a squarciagola "'O surdato 'nnamurato" durante una festa di nozze (in Toscana). Dettaglio sorvolabile senza troppe difficoltà, ma ancor più stereotipati sono i ruoli familiari e la visione stessa della famiglia: si va dalla protagonista che lamenta l'attaccamento al lavoro di suo marito, affermando che tutti gli uomini sono così mentre noi donne lavoriamo con moderazione (?!) alla risposta intrisa di una saggezza popolare un po' ottocentesca della barista che risponde di portar pazienza, che l'importante è che suo marito la renda una donna sposata. Ovviamente è presente anche la solita frecciata acida contro i novelli sposi, perché se sapessero che poi arrivano dei figli stronzi non avrebbero quel sorriso ebete quando si sposano. Mentre il falso-marito esce dal bar a ricevere una telefonata e ovviamente le donne si buttano a capofitto sull'eventualità di una falsa-amante a sottrargli il già scarso tempo libero. E così via, una banalità via l'altra. Ma forse queste osservazioni sono un po' esacerbate dalla mia pignoleria sensibile agli stereotipi maschilisti che ancora abbondano nel cinema, soprattutto quello ambientato in Italia che (dall'interno o dall'esterno, come in questo caso) ricalca i tratti più obsoleti della società patriarcale che si cerca di superare.
In realtà, della pecca più grave di questo film Kiarostami è assolutamente innocente: mi riferisco all'adattamento italiano, che trasforma il trilinguismo originale (italiano, francese e inglese) in un italiano standard e piuttosto assurdo, considerata la diversa nazionalità dei due protagonisti. La mutilazione delle lingue straniere mi riporta alla memoria il caso ben più straziante de Le Mépris di Godard, e anche se meno grave rimane un peccato (e il sacrificio, se finalizzato a rendere il film più scorrevole, credo sia stato inutile).

martedì 4 agosto 2015

Ritual: una storia psicotragicomica (di cui non c'era poi quel gran bisogno)

Giulia Brazzale e Luca Immesi si producono in un film à la Sorrentino (modello già di per sé discutibile, anche al meglio della sua forma) puntando sulle atmosfere di genere, a cavallo tra l'horror psicologico e un erotico un pizzico grottesco, tra la rude supremazia di lui alla Cinquanta sfumature di grigio e la monta furiosa sul tavolo à la Non ti muovere (o à la Amici miei - Atto II).
Il titolo Ritual si riferisce ai miracolosi interventi della santona di famiglia, la vecchia zia che estrae masse di carne dalla pelle intatta con il trucchetto del mago Do Nascimento (che poi è lo stesso con cui il mago di quartiere che tira le monetine fuori dalle orecchie dei bimbi, o con cui Leslie Nielsen in L'aereo più pazzo del mondo tira fuori dalla bocca di una signora uova a ripetizione). Eppure, sembra anche descrivere la natura e l'essenza di questo film: un rituale, appunto, una vana ostentazione, un'esibizione vuota e priva di anima come di carne. Abbiamo davanti un formalismo esasperato e vacuo, che riempie gli occhi per pochi minuti con la ricercatezza delle simmetrie, la freschezza delle inquadrature ricavate nei vani nascosti e nelle fessure del legno, l'eleganza delle forme, l'armonia sconcertante dei colori neutri, ma poi
Locandina. Da notare il nome di
Jodorowsky e da cercare con la
lente d'ingrandimento quelli di
Brazzale e Immesi.
implode irrimediabilmente nella propria nullità (oltre a sciuparsi in un disordinato carnevale di messe a fuoco creative ma reiterate e inquadrature capovolte/basculanti/impreviste/imprevedibili, pesantemente giustapposte in sequenze belle quanto inutili.

Personalmente, mi pare che il film intero si basi sostanzialmente su due elementi: il lusso degli ambienti e un freudismo spicciolo da film dell'orrore. La scenografia, come la regia, mantiene sontuosità e splendore per poco, e poi si affanna in una ridondanza di ambienti lustri ed invivibili, fastosi fino all'inopportuno, che invece di incorniciare oscuramente una storia claustrofobica la osservano ottusamente, come fuori posto, esageratamente, dallo studio dello psicologo simil-Reggia di Caserta alla sobria dimora di provincia di una zia sola, un castello di mille stanze ammobiliate in stile aristocrazia decaduta (da poco). Il lusso esasperato degli ambienti distrae e irrita, a dispetto del bellissimo e gelido colonnato che ci aveva illuso, nei titoli di testa, con le sue promesse di misurata eleganza.
Le sequenze più oniriche e surreali scimmiottano insensibilmente il cinema di Jodorowsky, sulla cui fama è impostata tutta "l'immagine" del film, a partire dal nome sbandierato in locandina (a fronte di una "partecipazione straordinaria" assolutamente inosservata) con un carattere poco più piccolo del titolo e molto più grosso del nome di registi e attori protagonisti. Lo stesso sottotitolo, Una storia psicomagica, più che un omaggio al maestro cileno sembra un abuso parassitario, tanto più che la psicomagia che permea il film sembra banalmente composta di psicoanalisi fai-da-te e di rimedi caserecci contro i malanni, secondo la tradizione e il folklore locale.
Infine, a contribuire al suono stonato del film è la dismisura "geografica" da cui è afflitto. Tra "l'infinitamente grande" dei fastival internazionali e "l'infinitamente piccolo" del filmetto autoprodotto che si ritaglia uno spazietto nei cinema locali manca la preziosa copula mediatrice: abbiamo allora un mix disomogeneo, un'acqua e olio di internazionalità e provincialismo, tra il titolo assurdamente e immotivatamente inglese anche nella versione italiana e le attempate signore (la zia Vanna Marchi e una sua cliente inconsapevole) che disquisiscono amabilmente in dialetto veneto, assise sul divano parte della lussuosa mobilia di cui prima.
Ultima nota di demerito: le punte irredimibili di trash. A proposito, attenti al finale: è molto peggio del gallo che Gassman doveva sgozzare sulla tomba di sua madre.

domenica 2 agosto 2015

"Milano odia: la polizia non può sparare" ma spara lo stesso

«Ragazzi, qua c'è una sola cosa che conta: o i soldi tu ce l'hai e sei qualcuno, o non ce l'hai e sei una pezza da piedi.»

Milano odia: la polizia non può sparare ha come protagonisti un giovane sociopatico stanco di essere povero e un non tanto giovane commissario sociopatico stanco di non poter ammazzare la gente.
Il giovane sociopatico in questione si chiama Giulio Sacchi (interpretato da Tomas Milian), un piccolo criminale della Milano degli anni '70 che si guadagna da vivere con piccoli delitti, come accoltellare una guardia notturna che lo ha sorpreso a scassinare un distributore di sigarette o sparare ad un vigile urbano che lo minaccia di multa per divieto di sosta.
Giulio, però, vuole diventare ricco ed è convinto che il lavoro non sia la strada giusta:


«Vendere la vita otto ore al giorno tutti i giorni finché strisci i piedi verso un ricovero della mutua. Mentre c'è in giro gente come il padrone tuo che fa un sacco di miliardi e li mette tutti in Svizzera.»

Piuttosto, metodi più efficaci sono giocare al Totocalcio, Canzonissima o l'enalotto, o semplicemente il sequestro di persona. Ovviamente Giulio sceglie il sequestro e individua la sua preda proprio nella figlia del padrone, Marilù.

Le azioni criminali di Giulio, sono spinte da una società in cui lo status sociale è determinato dalla ricchezza posseduta.
Durante il tentato sequestro Marilù riesce a scappare e si rifugia in una lussuosa villa dove chiede aiuto a quattro ricchi borghesi viscidi vigliacchi rincoglioniti (un ragioniere effeminato e un vecchio mezzo ubriaco, con le loro rispettive mogli).
I quattro non fanno il minimo sforzo per ascoltare gli avvertimenti della ragazza sul chiudere porte e finestre e si ritrovano la banda di sequestratori armata in casa. Ovviamente da bravi cittadini cercano di difendere Marilù. Il più coraggioso e benevolo è il ragioniere: «Che volete da noi? Se è per la ragazza, noi nemmeno la conosciamo. Sentite, noi non diremo niente, portatevi via questa ragazza, vi prego!»
Poi tocca al vecchio mezzo ubriaco: «Ragazzi, se serve un po' di grana posso pagare». Giulio non ci pensa due volte e massacra quest'ultimo a mitragliate.


«Sentite un po', io non so se siete d'accordo. A me ha fatto sempre un po' schifo la gente che vive solo per i soldi. Ci sono altri valori nella vita, no? Per esempio... l'amore universale! Conoscete l'amore universale?»

Giulio per amore universale intende costringere i tre superstiti a praticare una fellatio a tutti i componenti della banda. Il protagonista sceglie per sé il ragioniere e, agli inutili tentativi di opposizione di quest'ultimo, dichiara di essere «per la parità dei sessi».
L'avventura in villa termina con i ricchi borghesi appesi come carne da macello al lampadario e con Giulio Sacchi che riesce a sequestrare Marilù.
Colui che dovrebbe fermare questi efferati crimini è il sopracitato non tanto giovane commissario Walter Grandi. Costui è un uomo indignato che trasuda impotenza. Non fa altro che lamentarsi di come la polizia non ha il minimo potere sui criminali:


«Purtroppo riusciamo a prenderli di rado e quando li prendiamo, li sbattono fuori in 24 ore. Sta' tranquillo che quello stanotte si frega di nuovo una macchina e se magari una guardia notturna lo pizzica, una coltellata e via. Ma ti giuro che se ne becco uno io, invece di arrestarlo gli sparo!»


Il commissario Grandi durante il pacifico esercizio dei suoi doveri.
Nel film, il commissario Grandi, inspiegabilmente, riesce a capire che l'autore degli efferati crimini è Giulio Sacchi. Non ha prove, non ha testimoni, ma è estremamente sicuro della sua colpevolezza.
Nel frattempo, Giulio Sacchi riesce a portare a termine il sequestro, si intasca il riscatto e uccide Marilù. Il commissario appena si accorge che gliel'hanno fatta sotto il naso, si offende. Dice a tutti che secondo lui il colpevole è Giulio Sacchi, ma tutti continuano a ridergli in faccia per l'evidente mancanza di prove.
Il commissario, non potendo arrestare Giulio, decide arbitrariamente di condannarlo a morte e di eseguire pubblicamente la condanna.

Milano odia: la polizia non può sparare fa parte di quel filone di film polizieschi degli anni '70, in cui la polizia è ingabbiata in un sistema giudiziario (a detta di molti troppo garantista) e  quindi per far giustizia, usa metodi non convenzionali. L'abbigliamento del commissario Grandi non è causale, e ricorda molto quello di un suo più celebre collega, il commissario Calabresi. Luigi Calabresi era il commissario della questura di Milano e veniva chiamato "commissario finestra" perché per intimorire i sospetti durante gli interrogatori, li faceva sedere a cavalcioni sul davanzale della finestra. Qualche anno prima della realizzazione di questo film, dalla finestra del commissario, cadde Giuseppe Pinelli, un ferroviere anarchico accusato della strage di Piazza Fontana (accusa poi rivelatasi totalmente infondata).

Il commissario Luigi Calabresi.
Questo film mette in evidenzia l'arbitrarietà del potere che le forze dell'ordine esercitano. Giulio Sacchi era colpevole, ma questo lo sa lo spettatore che l'ha visto mentre commetteva quei crimini, non lo può sapere il commissario che tra l'altro non ha neanche una prova. L'esecuzione sommaria eseguita dal commissario è di fatto un abuso della sua autorità, esercitata arbitrariamente ed esacerbata da una evidente antipatia personale verso l'indiziato. 

domenica 5 luglio 2015

Hayao Miyazaki, le donne e il lavoro

Le donne dei film di Miyazaki non sono belle e stupide, né tanto meno belle e passive. Questa è una delle molte caratteristiche che rendono il maestro giapponese infinitamente distante da molti suoi colleghi sparsi per il mondo. Certo, il modello della femminilità intesa come passività, superficialità e inettitudine non è univoco sul mercato cinematografico, ma molti dei film (d'animazione o meno) che si pongono in ostilità con questo modello finiscono col mostrarsi semplicemente l'altra faccia della stessa medaglia: mi riferisco a quante storie, tendenzialmente lastricate di buone intenzioni, esaltino eroine femminili assolutamente capaci, propositive, eroiche appunto, stranamente simili ai modelli maschili, sottintendendo quasi che donne (o bambine o sirene o cagnette, nel variegato mondo dei film d'animazione) di tal fatta sono una sorprendente e meravigliosa eccezione.
I film di Miyazaki offrono delle donne attive e capaci un'immagine tutta diversa. Quello che in altri indirizzi appare come una felice eccezione, per Miyazaki è la regola, è la normalità. Il suo sguardo, quello che di riflesso ci mostra i suoi personaggi femminili, è rispettoso e umano: non è un complimento esterrefatto, non gronda di paternalismo o di condiscendenza. La sua esaltazione di alcuni personaggi femminili non è basata sul diffuso e dubbio apprezzamento: "Brava, per essere una donna", come a dire brava, nonostante questo grave handicap.
Le donne di Miyazaki incidono in modo preponderante nell'economia delle trame di cui sono parte: spesso sono protagoniste (la principessa Mononoke e la sua antagonista, la signora Eboshi; Chihiro, la piccola protagonista del fortunato film La città incantata; la multiforme Ponyo che dal mare si sposta sulla terraferma; la saggia Nausicaa della Valle del vento; la streghetta Kiki). Ma più che il ruolo di protagoniste delle vicende narrate, ciò che mi appare importante è il ruolo che le donne di Miyazaki ricoprono nelle piccole società su cui i suoi film si aprono come finestre: generalmente non si tratta di ruoli sociali marginali o passivi, non ci sono belle principesse recluse ad aspettare i propri salvatori, né damine svampite incapaci di discernere il bene e il male e ancor più di compiere l'uno o l'altro. Le donne di Miyazaki sono (direi con poche eccezioni) lavoratrici.



Hegel scriveva dell'importanza del lavoro e di come l'attività lavorativa nobilitasse il suo esecutore in una maniera tutt'altro che retorica: il lavoro è ciò che definisce l'essere umano, gli conferisce una definizione univoca in cui riconoscersi (quell'uomo è un dottore, quella donna è una musicista), più precisamente gli conferisce un ruolo sociale determinato e prezioso. Il lavoratore è protagonista attivo della società, ne è il trasformatore materiale, il motore insostituibile. Certo, il singolo lavoratore è facile preda di sostituzione e licenziamento, per ogni operaio scartato c'è un nutrito esercito industriale di riserva pronto a infilarsi nel posto vacante della produzione (e su questo banale meccanismo si basa gran parte dei processi volti a ridurre i diritti dei lavoratori e incrementare il profitto). Ciò che non è sostituibile è il lavoratore collettivo: ossia, qualcuno che lavori deve esserci. Sulla sua attività si basa la produzione, la sua manodopera informa il mondo circostante, la sua attività (in senso lato, ogni attività umana) crea e ricrea il mondo, gli dà significato.
Le donne lavoratrici di Miyazaki sono piantate solidamente in questo meccanismo e proprio da ciò proviene la loro singolare dignità, la loro connotazione tutt'altro che eccezionale di parte attiva della società di cui sono parte, la pienezza che le contraddistingue rispetto ai personaggi femminili belli e vacui, fatti solo per essere custoditi e ammirati, che ci danno l'orticaria.
I personaggi femminili di Miyazaki, anche se marginali rispetto all'economia della storia, sono quindi con poche eccezioni lavoratrici più o meno qualificate. Una particolare varietà è presente nel film La principessa Mononoke, in cui sono donne sia le operaie addette al lavoro più umile e faticoso, quello del mantice, sia la padrona a cui sono soggette, la signora Eboshi. E all'analisi che meriterebbe di essere svolta si aggiunge un'ulteriore sfumatura: le donne preferiscono fare un lavoro umile e spossante per Eboshi (personaggio ambiguo, incredibilmente autentico: cinica nei confronti della natura, che considera risorsa da spremere, spietata con gli animali selvaggi e con i suoi nemici, ma sinceramente filantropa, amica premurosa dei lebbrosi e delle sue operaie, ospite gradevole e leader inflessibile) che vivere passivamente come meri oggetti sessuali. Il principe Ashitaka si offre di provare il lavoro al mantice e dopo una divertita ostentazione della propria

Donne al mantice, La principessa Mononoke.
forza virile ammette che è un lavoro duro. «È vero - risponde una delle operaie - ma adesso siamo donne libere e gli uomini tengono le mani a posto». Il lavoro, dunque, per loro è innanzitutto strumento di emancipazione: così è anche per la piccola Chihiro. I suoi genitori, vittime di un sortilegio, vengono trasformati in maiali: per liberarli, la bambina deve innanzitutto trattenersi nella città incantata, e per fare questo deve trovare una giusta collocazione, ritagliarsi il suo piccolo ruolo sociale. In una parola, deve lavorare: si reca dalla padrona della grande struttura termale e le chiede un lavoro, lasciandole in cambio il proprio nome. Da quel momento e fino alla libertà, salvo che per il suo amico Haku, Chihiro si chiamerà Sen: e anche su questa compravendita del nome come simbolo dell'identità, dell'autodeterminazione, della libertà e coscienza individuale, bisognerebbe soffermarsi, e su come il datore di lavoro, di fatto, compri (per un tempo determinato) la persona fisica del suo lavoratore, lo espropri della propria umanità riducendolo a macchinario produttivo. Fatto sta che Chihiro si sottopone di buon grado al sacrificio, lascia alcune sillabe del suo nome alla padrona in cambio di un posto di lavoro e non si perita di faticare duramente, al fine di emancipare (sé stessa e) i suoi genitori: nel senso di liberare, ma anche nel senso letterale latino di prendere in mano, ossia di farsi responsabile in prima persona e direttamente del loro sortilegio e del loro destino.
Così è anche per la piccola Kiki, che in un dato giorno e secondo la regola prescritta deve partire all'avventura come ogni streghetta che si rispetti: a cavallo della sua scopa intraprende un viaggio senza meta, il rituale di passaggio che farà di lei una strega adulta, e tappa fondamentale del percorso è trovare un lavoro come fattorina (per Orsono, una panettiera). Anche Sophie, protagonista femminile di Il castello errante di Howl, è una ragazza sola che vive del suo lavoro in un negozio di cappelli.
Il modello della donna-lavoratrice trionfa nel film (del 1992, assurdamente distribuito nei cinema italiani solo nel 2010) Porco Rosso. Quando il pilota Marco Pagot porta il suo idrovolante a riparare dalla ditta Piccolo S.p.a., constata che tutti gli uomini di famiglia salvo il nonnetto titolare dell'azienda sono andati a cercare lavoro fuori città. Pensa di ritirarsi e commissionare il lavoro a qualcun altro, ma alla fine rimane e affida il suo

Fio lavora al progetto dell'idrocaccia, Porco Rosso.
idrovolante rosso nelle mani di una schiera alacre di parenti del titolare, dalla nipote diciassettenne Fio alle tre nonnette che, Marco si stupisce, il Signore non ha ancora chiamato in cielo. Le donne, vestite delle loro ampie gonne, si succedono alla pialla e al trapano, alla sega circolare e alla saldatrice, con una perizia che stupisce Porco Rosso e lo vede, poco dopo, spettatore attonito ed esecutore dell'unico lavoro non qualificato necessario al momento: cullare un neonato. La lavoratrice più orgogliosa è forse proprio la giovane Fio: lei è l'ingegnere capo dell'azienda e il suo compito è ridisegnare il progetto dell'idrovolante praticamente distrutto. Marco si scandalizza di fronte all'ipotesi di mettere il suo amato veicolo nelle mani di Fio e di fronte al dubbio di lei, se perché troppo giovane o perché femmina, risponde entrambe le cose. Fio non può smettere di essere femmina, ammette candidamente, ma può dimostrare il proprio valore e la propria perizia. Marco impiegherà poco tempo a riconoscere che il progetto di Fio è ottimo e che sorprendente è la disinvoltura con cui maneggia gli attrezzi da meccanico: infine, la voce fuori campo di Fio ci informa che sarà lei, anni dopo, a diventare titolare della Piccolo S.p.a. Insomma, vediamo trionfare senza forzature e senza edulcorate accondiscendenze un modello sociale che riconosce alle donne ciò che nessuno, ragionevolmente, potrebbe più negare loro, ossia la capacità di svolgere mansioni faticose o complesse, il diritto di essere economicamente autonome, il dovere di portare a termine il proprio compito. Tutto ciò sembra così scontato da non assomigliare a una conquista o a un insieme di diritti da rivendicare con forza e difendere, ma così non è, se la missione dell'astronauta Samantha Cristoforetti è stata salutata sui social network con commenti come "Secondo me ammacca la navicella alla prima retromarcia" o con i calcoli approssimativi dei mesi che avrebbe impiegato a parcheggiare l'astronave.


Insomma, la promessa di Miyazaki di non tornare a creare meraviglie dopo Si alza il vento è particolarmente triste, se si considerano i valori di civiltà e progresso umano di cui i suoi film sono naturalmente e tenacemente portatori: e la dignità delle donne è solo uno tra i tanti.


mercoledì 24 giugno 2015

Ogni parola è menzogna: "Persona" di Ingmar Bergman

Etimologicamente, la "persona" è la maschera teatrale, il personaggio. È Elisabeth, attrice teatrale, che rinuncia alla parola e diventa oggetto di cure psichiatriche e poi dell'assistenza di Alma, infermiera che deve occuparsi di lei ma in qualche modo riceve a sua volta un'assistenza, quella dell'ascolto. Il silenzio infrangibile di Elisabeth è per Alma un'occasione unica per farsi, finalmente, ascoltare: e riversa sulla paziente silenziosa le confidenze che, forse, non aveva riservato neppure a se stessa: così, quello che è di fatto un lungo monologo sembra diventare tale anche di diritto, e quel fiducioso raccontare-senza-aspettare-risposta sembra semplicemente un raccontare a se stessa, un parlare senza falsi pudori davanti allo specchio.
Anche Elisabeth è un personaggio tutt'altro che unitario: se Alma è quanto meno duplice (o al contrario, tende a riunire una duplicità di soggetti distinti nell'unità, come mostra il primo piano dei due mezzi visi che ne compongono uno solo), Elisabeth sembra oscillare tra essere Una e Centomila.
Certo, lei è persona/personaggio. Di più: lei è attrice (e non televisiva o di cinema, ma teatrale: proprio come la maschera che amplificava la voce e la parola nei teatri romani, che si chiamava appunto "persona"), quindi è una molteplicità di personaggi. È un personaggio frantumato, disperatamente stratificato: il suo essere individuale è formato da diversi livelli incrostati freudianamente gli uni sugli altri. La struttura stessa del film, rizomatica e lacunosa, è fatta di immagini inspiegabili che affiorano e, nascosti ma non troppo, il fotogramma di un pene eretto, quello di una vulva: l'inconscio è la materia prima del film, il primordiale e ingovernabile es freudiano, con il suo bagaglio di pensieri e sentimenti repressi e come sconosciuti, di associazioni libere e incomprensibili di immagini e riferimenti, di istintualità inconfessabili. Non a caso, Alma rivela ad Elisabeth e presumibilmente solo ad Elisabeth, che la ascolta interessata e muta, un episodio intimo che l'ha riguardata: un'orgia in compagnia di una ragazza appena conosciuta e due ragazzi mai visti prima, consumata alle spalle del fidanzato ignaro e che tale resterà. L'inconfessabile non sembrerebbe fatto per essere condiviso: la rivelazione fatta da Alma a Elisabeth sembra un guardarsi in faccia della sola Alma, un soliloquio fatto per il proprio solo beneficio, l'estrazione di stati d'animo mai rivelati e in fondo mai superati dalla stessa giovane donna che li ha messi in atto.



Persona mette in scena la diatriba tra questo es elementare e caotico che informa tutta la pellicola e l'io "civilizzato" e consapevole delle due donne; tra pulsioni e desideri (la maternità, la pienezza) e la loro repressione (l'aborto volontario in un caso, il rifiuto del bambino e l'odio verso di lui nell'altro); tra la trasparenza (il mettersi a nudo di Alma, il mettere a nudo i sentimenti di Elisabeth) e la finzione, il mascheramento, la convinzione che «ogni parola è menzogna». Ne esce un individuo sbriciolato: la crisi della maschera-soggetto si riflette nella pellicola che brucia e si accartoccia su di sé in occasione di un primo piano, l'inquadratura che più di ogni altra focalizza l'attenzione sulla fisionomia fisica e caratteriale del singolo personaggio, sulla sua unicità individuale.
La finzione, la maschera non sembrano qualcosa di negativo di cui il soggetto dovrebbe liberarsi per rivelarsi nella sua verità: sono parte del soggetto, contribuiscono a dargli l'aspetto e il contenuto che ha. La paura di essere «smascherata» che la dottoressa attribuisce a Elisabeth non è, credo, paura di essere vista per ciò che è, di rimanere priva di una facciata gradevole e vulnerabile all'esposizione delle proprie piccolezze: è paura di non essere più. È la paura di perdere la propria identità, di sciogliersi e sparire nell'infinito frantumarsi della propria soggettività. Speculare e complementare è la preoccupazione di Alma: «si può essere due persone?». È ancora la crisi del soggetto, la sua difficoltà di mantenersi e riconoscersi uno, tra i due, i centomila e il nessuno. È su questa stessa sensazione che si imbastisce l'osservazione di Alma sulla fisionomia di Elisabeth che sembra cambiare mentre lei dorme: anche nell'aspetto esteriore l'identità del sé con se stesso sembra sfuggente, caduca, passibile di deterioramento; l'innocuo passaggio dallo stato di veglia (presenza lucida, consapevolezza) a quello di sonno (opacità, passività) basta a incrinare, seppure per poco, seppure apparentemente, l'identità del soggetto con sé stesso.
Il bianco e nero è scheletrico, l'immagine traballante, continuamente deformata. Il nastro di pellicola frequentemente interrotto da frammenti che sembrano non c'entrare nulla. I confini tra il sé e l'altro sono estremamente labili, gli istanti di conflittualità tra Elisabeth e Alma si risolvono in una sensazione di autolesionismo. A mettere in crisi il soggetto, da un lato è la propria complessità che a volte lo rende auto-irriconoscibile; dall'altro lato, è l'affrontare la parola-menzogna di cui ogni altro soggetto è, come lui, portatore. Si tratta di quella stessa parola (voce) che Elisabeth (come maschera teatrale) si rifiuta di continuare ad utilizzare, e sacrificando la quale può avvicinarsi come ascoltatrice ad Alma, che di fronte al silenzio altrui ha l'impressione di parlare con se stessa, di ricomporre in sé la frattura identitaria; di superare la paura dell'immagine che gli altri, pirandellianamente, possono farsi di lei, contribuendo ancora alla sua frantumazione soggettiva.

«Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento: tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te e vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell'abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa