domenica 31 maggio 2015

"Il mondo tardoborghese" di Nadine Gordimer

«Dissi: "I ragazzi potrebbero fare delle chiacchiere... ma tu sai che lui lottava per le cose giuste, anche se il modo, forse, era sbagliato.
Non ce l'ha fatta, ma almeno non si è limitato a mangiare e dormire e compiacersi di se stesso. Non voleva lasciare così com'erano le cose sbagliate. Se ha fallito, be'... è stato sempre meglio che non tentare affatto. Ci sono..." - stavo per dire "dei padri", ma non volevo metterlo contro i rampolli delle ricche famiglie degli azionisti - "ci sono uomini che vivono bene e hanno successo nel mondo così com'è, ma non hanno nemmeno il coraggio di sbagliare per cercare di cambiarlo."»

Scritto nel 1966 mentre veniva accoltellato il primo ministro sudafricano Verwoerd (tra i principali ideologi dell'apartheid),"Il mondo tardoborghese" venne improvvisamente in mente all'editoria italiana solo nel 1989. I tempi non erano più quelli roventi, pregni di violenza disorganizzata e di rigorosa ideologia marxista in cui Nadine Gordimer aveva scritto il breve e raffinato romanzo; il muro era lì per cadere e gli entusiasmi terzomondisti d'Europa erano passati un po' di moda, ma l'apartheid esisteva ancora. Le preoccupazioni sul futuro e sui diritti della popolazione nera del Sudafrica erano ancora vive e necessarie. Così con ritardo in Italia si affacciò un romanzo vecchio e ancora nuovo, ancora pienamente attuale, anche se impregnato di quell'odore di esplosivo e clandestinità, quell'odore un po' da Anni di Piombo che anche il cittadino europeo ricorda bene.

Max entra nel libro di traverso, in sottofondo, come in filigrana: solo nei ricordi di sua moglie Liz, che nel corso di una giornata non molto diversa da tante altre (l'unica giornata in cui si svolge il romanzo intero) ne scopre il suicidio e deve comunicarne la notizia al figlioletto. Max si è lanciato in acqua con la sua automobile, portando con sé un malloppo di carte ormai illeggibili. Nessuno sembra porsi domande sul perché del suo gesto, ma Liz ripensa (a beneficio del lettore) al perché di tutta la vita che ha preceduto la decisione fatale.

«Max non era in grado di capire i bisogni di nessuno tranne i suoi. Mia madre una volta chiamò questa sua incapacità "orribile egoismo", mentre non era che l'impronta indelebile del suo ambiente, che lei tanto ammirava e dal quale lo vedeva allontanarsi come un folle.»

Max apparteneva a quel mondo tardoborghese capace di suscitare nei proprio giovani membri un insieme di noia e ansia, di vittimismo e di ribellione. Fin dalla scelta della facoltà universitaria (lettere, una scelta anticonformistica e "idealistica" rispetto alle solite scelte dei rampolli suoi pari, economia e commercio o giurisprudenza), ha cercato di svincolarsi da quel mondo artificioso per buttarsi tra i lavoratori, nelle township abitate da neri e indiani, nei treni superaffollati, 
«là dove batteva il cuore delle cose». Questa «impazienza febbrile» lo ha portato a partecipare ai lavori dell'ANC, a muoversi in clandestinità insieme a comunisti, antirazzisti e africani in lotta per l'emancipazione della popolazione nera. Max ha cercato in qualche modo di scardinare dall'interno il prestigio del potere boero (suo padre era un membro del parlamento, ovviamente di un partito conservatore) e questa sua tensione ideale ha imboccato le diverse vie clandestine che l'ingiusta società dell'apartheid gli offriva. Eppure, Liz sembra suggerirci con il suo distacco lucido e con una punta di biasimo benevolo, Max non lottava nel modo giusto. Ha messo in imbarazzo amici e parenti in occasione del matrimonio della sorella pronunciando, al posto del brindisi di rito, un'arringa contro la sclerosi morale e l'apatia sociale; ha intorbidito il piano riproduttivo familiare, mettendo incinta e poi sposando una ragazza di classe sociale inferiore, per poi andare a vivere con lei in quartieri poveri, barcamenandosi tra lavori saltuari e umili che garantissero la minima sussistenza; ma lo smacco più solido inflitto alla famiglia da parte di Max, è stato l'andare in carcere.
Max è diventato un bombarolo (senza per altro riuscire a fare esplodere nulla): ha scelto la via più distruttiva della lotta, la più rabbiosa. Ha lasciato all'amico ideologo l'elaborazione teorica, agli altri compagni la lotta politica: quello di cui voleva occuparsi lui era la distruzione. Distruzione del potere della classe a cui apparteneva, che gli aveva dato i natali e la forma: la lotta di Max, allora, prima e più di essere lotta per la giustizia e l'uguaglianza sociale, era una repressione spietata di quanto odiava in se stesso, di tutti quei segni di potere e privilegio di cui era portatore e vittima. La sua era una lotta omicida non per gli altri, ma contro se stesso, fino al collasso finale. Il percorso di Max assomiglia alla parabola discendente e implosiva della sua classe sociale, a quell'ambiente borghese cui il suffisso tardo- assegna l'avviamento ad un epilogo: epilogo dei miti perbenisti della classe (matrimonio con un buon partito, buona posizione lavorativa, lusso e immagine curata, impegno politico a difesa degli antichi privilegi e delle disuguaglianze sociali) ma anche della percezione di se stessa come classe vincente (il fallimento dei Van der Staendt nell'educazione del figlio, quello dei partiti nazionalisti e dei fautori dell'apartheid destinata all'abolizione).
Max è la serpe che la classe borghese portava nel proprio seno, ma è anche così disperatamente insofferente da non riuscire a rovesciare quel mondo contro cui impegna tutte le proprie forze fino all'estremo sacrificio (l'estrema sineddoche: immolare l'unica cosa su cui ha il controllo, il proprio corpo vivente, e immolare in esso il tutto di cui fa parte, la classe di appartenenza intera). È capace solo di mettere in atto la pars destruens del processo, che può essere propedeutica al cambiamento ma da sola non edifica un mondo migliore.

La domanda di Liz, che non si pone esplicitamente ma che sembra permeare tutta la giornata fino al suo incontro della sera con uno dei vecchi compagni, sembra infatti essere questa: si può costruire qualcosa attraverso la semplice distruzione, emotiva e disarticolata? In altre parole: un'autentica rivoluzione può passare attraverso il mero "fare casino"?
Liz non appartiene a quel mondo decadente ed esclusivo che ha fatto di Max un ribelle infelice destinato all'implosione e alla sconfitta; ha sfiorato quel mondo quando lo ha sposato, ma non ne è mai diventata parte. È una tecnica di laboratorio, lavora senza sfruttare altri e senza esercitare privilegi di classe. Lei non ha nemici da uccidere dentro di sé, ha solo il desiderio lucido e costruttivo di superare quell'antinomia paralizzante che costringe all'inazione, alla passività di fronte alle storture della società: quella tra paura e vita.

«"Anche gli altri, sono quasi tutti così. Diventi loro amico, ci stai un sacco bene, e poi loro escono con certe frasi. Devi stare zitto e basta." Mi guardava accigliato, in viso un'espressione stoica e costernata, cercando una risposta ma sapendo già che non ce n'erano. Disse: "A volte vorrei che fossimo come gli altri."
Chiesi: "Quali altri?"
"Quelli che se ne fregano."»

martedì 26 maggio 2015

"I desideri sono già ricordi": Italo Calvino, le città e la memoria

«Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d'una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole».

Le città invisibili, racconta Calvino nella Prefazione, è un libro che si è scritto un po' per volta, all'inizio in modo disorganico e casuale, poi secondo uno schema più regolare e nitido. Calvino usava scrivere così, una pagina ora, sul tema degli animali; una più tardi, sulla natura o sugli oggetti. Catalogava poi i testi sciolti, li raggruppava in cartelle tematiche da cui avrebbe poi tratto un libro, se i fogli volanti fossero diventati un numero consistente. La cartella che aveva adibito a raccoglitore per il tema città iniziava a riempirsi e così nacque l'idea del libro come noi lo conosciamo: le città raccontate (città inventate ed impossibili, ognuna con un nome di donna e uno spunto di riflessione da offrire) vennero divise per serie. Si arriverà a 11 serie da 5 città: alcune serie vengono soppresse e scorporate in altre (le città e la forma, le città duplici); due serie vengono pensate a tavolino per completare il progetto ormai formato e realizzate apposta (le città nascoste e quelle continue); ma alcune serie (le città e la memoria, le città e il desiderio, le città e i segni) si impongono subito nella scelta per la sistematizzazione, sono le prime ad essere fissate e rimangono presenti e solide fino alla struttura finale del libro. Le città sottili sono forse "la zona più luminosa del libro" e i corsivi tra Marco Polo e Kublai Kan (pretesto narrativo che introduce le relazioni di viaggio sulle città invisibili) sono un po' trascurate da lettori e critici ma rivendicate da Calvino come luogo privilegiato di interrogativi e discussione; ma le prime tre serie di città, sono le più importanti.

Il critico psicoanalitico G. Bonura (nella recensione "Le città invisibili ovvero il «corpo» di Calvino", 1973) trovò un senso particolare del libro nella rievocazione di Marco Polo, «come un ritorno ai primi archetipi della memoria». Le città e la memoria sono una serie speciale: 4 racconti su 5 della serie sono raccolti nella prima decina (la suddivisione in decine è quella espositiva ma anche quella che rispecchia a grosse linee l'ordine in cui i racconti sono stati scritti). Il tema della memoria sembra preminente anche rispetto al desiderio e ai segni, è quello che viene sviluppato ed esplorato per primo. Ed è un tema speciale perché le città sono fatte soprattutto di memoria: la memoria è il materiale di cui le città, strato su strato, si compongono. La città non è, di solito, edificata da un giorno all'altro: la città medievale si
edifica su quella greca e romana, quella gotica slancia le sue guglie dove il panorama era segnato da masti massicci, la città moderna inaugura i suoi café e i suoi atelier negli edifici che ospitarono magazzini o che si affacciavano sui mercati del pesce, fino agli skyline che convivono spesso negli stessi quartieri di vecchi palazzi signorili o di monumenti segnati dalle intemperie. Anche il nome della città attraversa i secoli e sopravvive alle dominazioni, cambiando accento, cambiando grafia. Il presente rimodella la forma della memoria - corporea, solida, opaca - e la supera solo portandola dentro di sé. Il passato si annida nella città attuale e conserva nei propri dettagli, nei propri resti, tracce di altri passati come in un frattale.
Maurilia era una cittadina provinciale, raccontata solo nelle cartoline illustrate, e oggi è una metropoli: la dialettica tra vecchio e nuovo è l'equilibrio tra il presente e la memoria. Si rimpiange la ridente Maurilia di un tempo, la si ricorda con nostalgia, se ne rievoca la grazia e la familiarità, ma lo si può fare solo perché oggi Maurilia conosce cavalcavia, fabbriche di esplosivi, stazioni degli autobus. Se il nuovo non avesse inghiottito e conservato - diverso - il vecchio, Maurilia sarebbe sempre e solo una cittadina di provincia e nessuno la troverebbe graziosa, né ridente, né la farebbe oggetto di dolci ricordi. È la presenza materiale del passato che fa vivere la città, e la vita e la trasformazione sono ciò che la conservano, che le impediscono di farsi una morta palude stagnante. Zora è l'unica città che resta sempre uguale a sé stessa. Chi ha conosciuto Zora è diventato un uomo sapiente, perché come Cicerone ha collegato i suoi loci ad avvenimenti storici, a costellazioni, a parti di discorsi, e ha potuto così mandarli tutti a memoria. Ma quella che sembra la maniera più concreta di conservare il passato, ossia conservarlo proprio così com'è, ha il solo risultato di atrofizzarla, sclerotizzarla, impagliarla: «Obbligata a restare immobile e uguale a se stessa per essere meglio ricordata, Zora languì, si disfece e scomparve. La Terra l'ha dimenticata».

«A tutte queste cose egli pensava quando desiderava una città. Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c'è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro. I desideri sono già ricordi».

domenica 24 maggio 2015

"È stato morto un ragazzo": Federico Aldrovandi che una notte incontrò la polizia

Ammazzare un ragazzo che ha assunto droghe è meno grave che ammazzare un ragazzo che non lo ha fatto. È questa la linea di difesa assunta dagli avvocati difensori dei quattro poliziotti che, durante le prime ore del 25 settembre 2005 a Ferrara, hanno soccorso e percosso Federico Aldrovandi, studente di 18 anni.
Quella notte Federico Aldrovandi - ritornando a casa dopo aver assistito ad un concerto a Bologna - si imbatte in una pattuglia della polizia. Gli agenti arrivano sul posto dopo alcune chiamate effettuate da dei cittadini che segnalavano schiamazzi da parte di una o due persone. Federico quella sera aveva assunto delle sostanze stupefacenti in limitata quantità (come confermerà l'autopsia) ma i suoi amici - in seguito - diranno che "stava bene, non barcollava e non era agitato". Diversamente i poliziotti diranno di lui: un esagitato che dava minacciosamente in escandescenze, sbatteva la testa contro i lampioni, arrivava addirittura a saltare sulla macchina della polizia (benché questi leggiadri 80 chili pare non abbiano lasciato alcun segno sulla carrozzeria).
Di fronte a una situazione simile, la norma sarebbe stata immobilizzare e sedare il soggetto pericoloso, naturalmente secondo il consiglio di un medico. Che Aldrovandi sia stato in effetti calmato e immobilizzato è innegabile: una mezz'ora dopo il suo incontro con i quattro poliziotti è moribondo. Cosa sia successo tra l'istante dell'incontro e quello del decesso, nessun testimone sembra saperlo. Prima c'era un esagitato sotto effetto di droghe che faceva casino, dopo c'era un ragazzo morto con segni di percosse sulle gambe e sul viso, nel torace le tracce di una morte violenta: in mezzo una quieta notte ferrarese senza occhi né orecchie.
Solo una voce ha permesso che si facesse luce, almeno in parte, su quella mezz'ora fatale (che i poliziotti per un pezzo si sono ostinati a ridurre a una decina di minuti). Diverse persone hanno chiamato le forze dell'ordine nel breve lasso di tempo, ma pare che nessuna di esse si sia poi interessata della fonte del trambusto o dell'esito dell'intervento dei poliziotti. La testimonianza chiave del processo Aldrovandi (quella che ha portato alla condanna degli agenti) si deve all'unica testimone non reticente, una camerunense in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno.
Il documentario "È stato morto un ragazzo", realizzato da Filippo Vendemmiati, racconta in maniera dettagliata i fatti che portarono alla morte del giovane ferrarese e quelli che seguirono. In particolar modo -
grazie all'intreccio di intercettazioni, spezzoni del processo, interviste - vengono messi in mostra alcuni particolari che sicuramente al distratto spettatore medio delle trasmissioni di Barbara d'Urso sarà sfuggito (anche, probabilmente, perché la trasmissione media che si propina al distratto spettatore ha evitato con cura di essere esauriente al riguardo). A cominciare, per esempio, dalla testimonianza comune degli agenti sulle condizioni di Federico:



«Stava benissimo prima dell'arrivo dei sanitari».

In contraddizione con le parole con cui uno dei quattro poliziotti imputati racconta il fatto ad un collega:


«L'abbiamo bastonato di brutto».

In tribunale, dovendo rendere conto di questa esplicita ammissione, con candore lo stesso poliziotto garantisce che è solo "un modo di dire". Eppure, sembra proprio un caso in cui il manganello ha ferito più della lingua.
Il documentario di Vendemmiati ha il pregio di raccogliere questa e altre contraddizioni sfuggite alle maglie piuttosto larghe dei mass media o passate per tempi più o meno brevi sotto silenzio: è il caso, ad esempio, dei manganelli spezzati che misteriosamente spariscono dalla scena al sopraggiungere della polizia scientifica e di cui non si sarebbe probabilmente saputo nulla se quella volpe di Giovanardi non si fosse lasciato scappare il riferimento alle armi sparite. Ciò che più beffardamente emerge dal documentario di Vendemmiati è l'atteggiamento arrogante mostrato dai quattro poliziotti. Come non ricordare il commento di uno dei quattro (facilmente reperibile in rete) alla notizia del risarcimento ricevuto dalla madre di Federico:


«Che faccia da culo che aveva sul tg… una falsa e ipocrita… spero che i soldi che ha avuto ingiustamente possa non goderseli come vorrebbe… adesso non stò più zitto dico quello che penso e scarico la rabbia di sette anni di ingiustizie…»

Parlando alla centrale per radio, i quattro agenti danno subito del giovane sconosciuto una descrizione tendenziosa: circa trentenne, evidentemente un tossico, tatuato, vestito da centro sociale. Uno sguardo imparziale vede invece un ragazzino appena maggiorenne con addosso una felpa firmata; il famigerato tatuaggio è il timbro della discoteca che l'indomani si lava con acqua e sapone.



«I periti enfatizzano l'uso di droga, ma se mio figlio era indebolito dagli stupefacenti, che bisogno c'era di usare violenza? Federico è morto di anossia posturale, che è più o meno come morire crocifissi.»
[Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi]

La realtà dei fatti, tragicamente constatabile, si scontra allora con la pretesa arrogante di essere
dalla parte del giusto. La presa di posizione è ovviamente pregiudiziale e le idee delle autorità sono ben chiare ancora prima dell'inchiesta e dell'autopsia (e prima che saltino fuori i famosi manganelli spezzati):



"Il procuratore capo Severino Messina fa il punto sull'inchiesta del decesso del giovane Federico Aldrovandi: «Faremo di tutto per scoprire la verità, ma non c'è nessun collegamento tra le lesioni esterne e la morte»".
[Articolo citato nel documentario]

Per fortuna, oltre a questa indubitabile verità a priori, altri si sono premurati di trovarne un'altra suffragata dai fatti. A far luce sarà il giudice Francesco Maria Caruso nella motivazione della sentenza di condanna in primo grado: 

«un furioso corpo a corpo tra gli agenti di polizia e Federico, durante il quale vennero rotti due manganelli, con i quali colpirono l’Aldrovandi in varie parti del corpo, continuando dopo che lo stesso era stato costretto a terra e qui immobilizzato al suolo, nonostante i verosimili ma impari tentativi del ragazzo di sottrarsi alla pesante azione di contenimento che ne limitava il respiro e la circolazione».

sabato 23 maggio 2015

Il diritto al delirio e il nuovo mondo possibile: Eduardo Galeano

Poco più di un mese fa scompariva Eduardo Galeano. Non tutte le sue opere sono reperibili in italiano, ma il suo nome è legato soprattutto al suo libro più famoso, Le vene aperte dell'America Latina. È il libro che il presidente venezuelano Chávez ha regalato a Obama in occasione di un loro incontro e che spero il presidente statunitense abbia ricevuto con un certo imbarazzo: un libro simbolo, che denuncia sfruttamento e miseria di un contintente martoriato, partendo dal funesto arrivo degli Europei cinque secoli or sono e passando per le sanguinarie dittature che gli USA hanno appoggiato, dall'Argentina al Cile, negli anni Settanta.
Ricordiamo Galeano rileggendo un suo piccolo testo, uno svolazzante manifesto del nostro diritto ad un'incertezza speranzosa e intraprendente: «Sebbene non possiamo indovinare il tempo che sarà, abbiamo per lo meno il diritto di immaginare quello che vogliamo che sia.» 
Il delirio allora, la fantasticheria, non sono che i nostri auspici su un mondo migliore a venire.
Scritto a cavallo dell'ingresso nel nuovo millennio, El derecho al delirio esordisce ironizzando sull'arroganza di alcuni uomini, che indicano il momento corrente come fatidico, epocale, segnato da attese e ansie millenaristiche appunto. L'ironia risiede nell'ovvia osservazione che, mentre per noi altri si era nel 2001, per i musulmani si era appena nel 1379, per gli ebrei già nel 5114. Il tanto atteso e festeggiato "nuovo millennio" era solo un'opinione sulla misurazione della storia, una convenzione senza corrispettivi di esistenza reale, uno dei tanti boriosi eurocentrismi che permeano il mondo. E come già accadde alla vigilia dell'anno 1000, deludendo le ansiogene e misticheggianti attese di Gioacchino da Fiore e di altri che attendevano chissà che fantastica parusia in occasione di una data tanto eccezionale, anche nel 2000 si realizzò un bel nulla condito di buoni propositi e ansie escatologiche.

 «Millennio va, millennio viene, l'occasione è propizia perché gli oratori di verbo infiammato pronuncino discorsi sul destino dell'umanità, e perché i portavoce dell'ira di Dio annuncino la fine del mondo e la deflagrazione generale, mentre il tempo continua, silenziosamente, il suo cammino lungo l'eternità e il mistero».

Se una data convenzionale non è nulla e il tempo si fa beffa di noi e delle boriose misurazioni che vogliamo darne, che resta di un nuovo millennio? La verità è che «non c'è nessuno che resista» a immaginarsi, solo l'indomani, già persone del millennio precedente; e a immaginare il millennio nuovo, totalmente nuovo, "delirante". Esercitando il nostro diritto a questo delirio pieno di speranza «andiamo ad appuntare lo sguardo più in là dell'infamia, per indovinare un altro mondo possibile», in cui «la gente lavorerà per vivere, invece di vivere per lavorare», nessun ragazzo sarà costretto a compiere il servizio militare, «gli economisti non chiameranno "livello di vita" il livello di consumo, né chiameranno "qualità della vita" la quantità delle cose».
Se il nuovo millennio che immaginiamo con Galeano portasse con sé una diversa concezione delle persone e delle cose (le prime, non meri mezzi da sfruttare per poter accumulare le seconde), lo sfruttamento non sarebbe più considerato lecito e lo sfruttatore non sarebbe più considerato il modello vincente da emulare: il modello vincente sarebbe quello della dignità umana e della giustizia sociale. Giochiamo a usare il tempo futuro invece del condizionale: quando «il mondo non sarà più in guerra contro i poveri ma contro la povertà [...] nessuno morirà di fame, perché nessuno morirà di indigestione».
«I bambini di strada non saranno trattati come se fossero spazzatura, perché non ci saranno bambini di strada» e «i bambini ricchi non saranno trattati come se fossero denaro, perché non ci saranno bambini ricchi».
«L'istruzione non sarà il privilegio di chi possa pagarla» e, specularmente, «la polizia non sarà la maledizione di chi non possa comprarla».
Nel mondo migliore, nel mondo diverso ma possibile che Galeano sognava ma non è vissuto abbastanza per vedere:

 «una donna, nera, sarà il Presidente del Brasile e un'altra donna, nera, sarà il Presidente degli Stati Uniti d'America; una donna india governerà il Guatemala e un'altra il Perù.
In Argentina, le pazze di Plaza de Mayo saranno un esempio di salute mentale, perché esse si negarono di dimenticare nei tempi dell'amnesia obbligatoria; la Santa Madre Chiesa correggerà gli errori delle tavole di Mosé [...] e detterà anche un nuovo comandamento [...]: "Amerai la natura, di cui fai parte".
Saranno riforestati i deserti del mondo e i deserti dell'anima».

Il breve testo di Galeano può irritare, con la sua semplicità da letterina per Babbo Natale o la sua innocenza odorosa di pura utopia. Ma non è un manifesto programmatico, non è un trattato di sociologia o di economia: è solo l'esercizio di un diritto, quello a immaginare il momento in cui le piaghe del mondo (e specie dei mille sud del mondo) saranno guarite, in cui le vene aperte dell'America Latina saranno rimarginate. È una preghiera laica, un'invocazione alla bontà dell'uomo, alla sua intelligenza, alla sua capacità di esercitare solidarietà e rispetto, per gli altri e per l'ambiente. Che il "nuovo" millennio (ormai non più nuovissimo) porti con sé quella meta finale dell'umanità, quell'apice dello sviluppo mondiale che non contempli più oppressione dell'uomo sull'uomo, minorità delle donne, distruzione dell'ambiente e insalubrità dei luoghi di vita, sfruttamento violento e distribuzione iniqua delle risorse è probabilmente una pia illusione. Eppure, che sia dietro l'angolo delle ere geologiche (solo qualche secolo o millennio più avanti di ora) o che sia un giorno a cui ci avvicineremo asintoticamente per sempre, quel giorno «saremo compatrioti e contemporanei di tutti coloro che abbiano volontà di giustizia e volontà di bellezza, che siano nati dove siano nati e abbiano vissuto quando abbiano vissuto, senza che importino neppure un pochino le frontiere delle cartina geografica o del tempo».

Con questo suo dolcissimo ed umano manifesto vogliamo ricordare Galeano e con lui e per lui vogliamo continuare a sognare questo mondo (di certo possibile, forse a venire) in cui i dannati della terra ne saranno i padroni, in cui gli oppressori saranno rovesciati da chi è sempre stato oppresso. Insomma in cui «le macchine saranno investite dai cani».

martedì 19 maggio 2015

Tu eri la libertà, liberatrice innamorata: Manuela Sáenz

Ad oggi, alla voce "Manuela Sáenz" di Wikipedia (versione italiana) si legge:

«Manuela Sáenz de Thorne, soprannominata la "Libertadora del Libertador" (Quito, 27 dicembre 1797 – Paita , Perù, 23 novembre 1856), è stata l'amante del comandante rivoluzionario sudamericano Simón Bolívar.
Manuela Sáenz è considerata la prima femminista dell'America Latina ed un'importante rivoluzionaria sudamericana. Lo storico venezuelano Denzil Romero dice che Sáenz "fu la donna più importante nella storia dell'America Latina" e che "ebbe maggior influenza politica di Evita Perón"».

Seguono tre righi sulla sua infanzia. Si legge anche che la voce è solo un abbozzo e che chiunque ne sappia di più è invitato a contribuire. Niente da recriminare sulla scarsezza delle informazioni, è ovvio: ma qualcos'altro mi ha fatto accigliare.

Immagino che le voci di José Martí, Sandino, Che Guevara non esordiscano con "Nato il, deceduto il, era il marito della sora Guendalina. Ah, ed anche uno delle più importanti figure storiche del suo continente".
Ma forse noto questa quisquilia solo perché ritengo che una persona di sesso femminile possa avere una dignità propria ed essere lodata o biasimata per le proprie azioni, piuttosto che ricordata innanzitutto come appendice del proprio partner o di un proprio parente. Soprattutto dal momento che, lo ricordo, non stiamo parlando di una donna dalla biografia poco significativa. Mi spiego: troverei normale definire la signora Katharina Guldenmann (nota al più per i vari processi per stregoneria subiti) come "la mamma di Keplero", molto meno definire Rita Levi-Montalcini "la sorella di Gino". Senza offesa nè per Katharina né per Gino, naturalmente.
Tornando a Manuelita e tentando di stabilire delle priorità più razionali in una sua succinta presentazione, possiamo esordire con il suo titolo, quello con cui la sua gente la conosceva: era la Colonnella dell'Esercito Liberatore. Subito dopo il matrimonio si avvicina alla causa patriottica, inizia a occuparsi di spionaggio e ad avvicinare altri guerrieri alla lotta per l'Indipendenza del Perù: nel 1821 i suoi meriti le valgono la decorazione con l'ordine Cavalleresco del Sole (finora non è poca roba e le effusioni con Bolívar ammontano ancora a zero).
Continua con l'attività di spionaggio e dopo la battaglia di Pichincha diventa Tenente. È allora che conosce il Libertador e nei pochi anni successivi diventa responsabile della sua sicurezza, salvandogli la vita due volte (così nasce l'epiteto Libertadora del Libertador). La seconda volta, nel 1827, «Sáenz mette in salvo Bolívar da un attentato ordito dai suoi nemici, affrontando dodici cospiratori mentre Simón fuggiva dalla finestra della sua camera». Si batte a fuoco aperto nella battaglia di Ayacucho, diventa Colonnella (il grado più elevato degli ufficiali superiori), si impegna in una cospirazione per portare al potere il generale bolivariano Urdaneta, viene catturata ed espulsa dalla Colombia.
Demoralizzata e duramente provata, tenta il suicidio ma poi si reinventa, si dà al commercio e alle traduzioni, rifiuta l'eredità del marito e continua a vivere nella povertà. Si ammala di difterite. «Presso la sua ultima dimora le fanno visita diverse personalità, tra cui Herman Melville e Giuseppe Garibaldi».

È triste che una biografia così esaltante sia accantonata, a fronte di una ben più interessante liaison sentimentale con chicchessia.
Scrive Marnoglia Hernández Groeneveledt:

«hanno voluto cancellare Sáenz dalla storia, eliminando ogni indizio della sua esistenza, e limitando la sua figura al solo ruolo di amante del Libertador. Ma Manuela era una donna colta, che aveva letto Plutarco, Tacito, Garcilaso e Álvarez de Cienfuegos. Una donna che già prima di incontrare Bolívar era impegnata nella causa patriottica, e non accettava l'oppressione e l'ingiustizia della società dell'epoca [...].
Il lascito di Sáenz è andato oltre le nuove generazioni e nel 2007 il presidente Rafael Correa la proclama "Generalessa dell'Ecuador". Manuela, la insepulta de Paita, non solo salva il Libertador, ma salva se stessa da una società spietata, rivendicando le donne rivoluzionarie d'America e sfidando gli schemi della società borghese. [...] Manuelita, la Colonnella, è stata e sarà il simbolo delle donne valorose che hanno dato la vita per la causa patriottica.»


Per lei sono i versi di Neruda:

Tu eri la libertà,
liberatrice innamorata.
Doni e dubbi portavi,
irriverente adorata.
Era spaventato il gufo nell'ombra 
finché la tua chioma passò.
E rischiararono le tegole, 
gli ombrelli si illuminarono.
Cambiarono veste le case.
L'inverno si fece trasparente.
Era Manuelita che attraversò
le strade stanche di Lima,
la notte di Bogotá,
l'oscurità di Guayaquil,
l'abito nero di Caracas.
E da allora è giorno.

  • Le citazioni di Marnoglia Hernández Groeneveledt sono tratte dall'articolo "Manuela Sáenz, la Colonnella d'America" (in Amerindia, 10/2014).
  • I versi di Neruda sono tratti dalla poesia dedicata a Sáenz, "L'insepolta di Paita".