domenica 5 luglio 2015

Hayao Miyazaki, le donne e il lavoro

Le donne dei film di Miyazaki non sono belle e stupide, né tanto meno belle e passive. Questa è una delle molte caratteristiche che rendono il maestro giapponese infinitamente distante da molti suoi colleghi sparsi per il mondo. Certo, il modello della femminilità intesa come passività, superficialità e inettitudine non è univoco sul mercato cinematografico, ma molti dei film (d'animazione o meno) che si pongono in ostilità con questo modello finiscono col mostrarsi semplicemente l'altra faccia della stessa medaglia: mi riferisco a quante storie, tendenzialmente lastricate di buone intenzioni, esaltino eroine femminili assolutamente capaci, propositive, eroiche appunto, stranamente simili ai modelli maschili, sottintendendo quasi che donne (o bambine o sirene o cagnette, nel variegato mondo dei film d'animazione) di tal fatta sono una sorprendente e meravigliosa eccezione.
I film di Miyazaki offrono delle donne attive e capaci un'immagine tutta diversa. Quello che in altri indirizzi appare come una felice eccezione, per Miyazaki è la regola, è la normalità. Il suo sguardo, quello che di riflesso ci mostra i suoi personaggi femminili, è rispettoso e umano: non è un complimento esterrefatto, non gronda di paternalismo o di condiscendenza. La sua esaltazione di alcuni personaggi femminili non è basata sul diffuso e dubbio apprezzamento: "Brava, per essere una donna", come a dire brava, nonostante questo grave handicap.
Le donne di Miyazaki incidono in modo preponderante nell'economia delle trame di cui sono parte: spesso sono protagoniste (la principessa Mononoke e la sua antagonista, la signora Eboshi; Chihiro, la piccola protagonista del fortunato film La città incantata; la multiforme Ponyo che dal mare si sposta sulla terraferma; la saggia Nausicaa della Valle del vento; la streghetta Kiki). Ma più che il ruolo di protagoniste delle vicende narrate, ciò che mi appare importante è il ruolo che le donne di Miyazaki ricoprono nelle piccole società su cui i suoi film si aprono come finestre: generalmente non si tratta di ruoli sociali marginali o passivi, non ci sono belle principesse recluse ad aspettare i propri salvatori, né damine svampite incapaci di discernere il bene e il male e ancor più di compiere l'uno o l'altro. Le donne di Miyazaki sono (direi con poche eccezioni) lavoratrici.



Hegel scriveva dell'importanza del lavoro e di come l'attività lavorativa nobilitasse il suo esecutore in una maniera tutt'altro che retorica: il lavoro è ciò che definisce l'essere umano, gli conferisce una definizione univoca in cui riconoscersi (quell'uomo è un dottore, quella donna è una musicista), più precisamente gli conferisce un ruolo sociale determinato e prezioso. Il lavoratore è protagonista attivo della società, ne è il trasformatore materiale, il motore insostituibile. Certo, il singolo lavoratore è facile preda di sostituzione e licenziamento, per ogni operaio scartato c'è un nutrito esercito industriale di riserva pronto a infilarsi nel posto vacante della produzione (e su questo banale meccanismo si basa gran parte dei processi volti a ridurre i diritti dei lavoratori e incrementare il profitto). Ciò che non è sostituibile è il lavoratore collettivo: ossia, qualcuno che lavori deve esserci. Sulla sua attività si basa la produzione, la sua manodopera informa il mondo circostante, la sua attività (in senso lato, ogni attività umana) crea e ricrea il mondo, gli dà significato.
Le donne lavoratrici di Miyazaki sono piantate solidamente in questo meccanismo e proprio da ciò proviene la loro singolare dignità, la loro connotazione tutt'altro che eccezionale di parte attiva della società di cui sono parte, la pienezza che le contraddistingue rispetto ai personaggi femminili belli e vacui, fatti solo per essere custoditi e ammirati, che ci danno l'orticaria.
I personaggi femminili di Miyazaki, anche se marginali rispetto all'economia della storia, sono quindi con poche eccezioni lavoratrici più o meno qualificate. Una particolare varietà è presente nel film La principessa Mononoke, in cui sono donne sia le operaie addette al lavoro più umile e faticoso, quello del mantice, sia la padrona a cui sono soggette, la signora Eboshi. E all'analisi che meriterebbe di essere svolta si aggiunge un'ulteriore sfumatura: le donne preferiscono fare un lavoro umile e spossante per Eboshi (personaggio ambiguo, incredibilmente autentico: cinica nei confronti della natura, che considera risorsa da spremere, spietata con gli animali selvaggi e con i suoi nemici, ma sinceramente filantropa, amica premurosa dei lebbrosi e delle sue operaie, ospite gradevole e leader inflessibile) che vivere passivamente come meri oggetti sessuali. Il principe Ashitaka si offre di provare il lavoro al mantice e dopo una divertita ostentazione della propria

Donne al mantice, La principessa Mononoke.
forza virile ammette che è un lavoro duro. «È vero - risponde una delle operaie - ma adesso siamo donne libere e gli uomini tengono le mani a posto». Il lavoro, dunque, per loro è innanzitutto strumento di emancipazione: così è anche per la piccola Chihiro. I suoi genitori, vittime di un sortilegio, vengono trasformati in maiali: per liberarli, la bambina deve innanzitutto trattenersi nella città incantata, e per fare questo deve trovare una giusta collocazione, ritagliarsi il suo piccolo ruolo sociale. In una parola, deve lavorare: si reca dalla padrona della grande struttura termale e le chiede un lavoro, lasciandole in cambio il proprio nome. Da quel momento e fino alla libertà, salvo che per il suo amico Haku, Chihiro si chiamerà Sen: e anche su questa compravendita del nome come simbolo dell'identità, dell'autodeterminazione, della libertà e coscienza individuale, bisognerebbe soffermarsi, e su come il datore di lavoro, di fatto, compri (per un tempo determinato) la persona fisica del suo lavoratore, lo espropri della propria umanità riducendolo a macchinario produttivo. Fatto sta che Chihiro si sottopone di buon grado al sacrificio, lascia alcune sillabe del suo nome alla padrona in cambio di un posto di lavoro e non si perita di faticare duramente, al fine di emancipare (sé stessa e) i suoi genitori: nel senso di liberare, ma anche nel senso letterale latino di prendere in mano, ossia di farsi responsabile in prima persona e direttamente del loro sortilegio e del loro destino.
Così è anche per la piccola Kiki, che in un dato giorno e secondo la regola prescritta deve partire all'avventura come ogni streghetta che si rispetti: a cavallo della sua scopa intraprende un viaggio senza meta, il rituale di passaggio che farà di lei una strega adulta, e tappa fondamentale del percorso è trovare un lavoro come fattorina (per Orsono, una panettiera). Anche Sophie, protagonista femminile di Il castello errante di Howl, è una ragazza sola che vive del suo lavoro in un negozio di cappelli.
Il modello della donna-lavoratrice trionfa nel film (del 1992, assurdamente distribuito nei cinema italiani solo nel 2010) Porco Rosso. Quando il pilota Marco Pagot porta il suo idrovolante a riparare dalla ditta Piccolo S.p.a., constata che tutti gli uomini di famiglia salvo il nonnetto titolare dell'azienda sono andati a cercare lavoro fuori città. Pensa di ritirarsi e commissionare il lavoro a qualcun altro, ma alla fine rimane e affida il suo

Fio lavora al progetto dell'idrocaccia, Porco Rosso.
idrovolante rosso nelle mani di una schiera alacre di parenti del titolare, dalla nipote diciassettenne Fio alle tre nonnette che, Marco si stupisce, il Signore non ha ancora chiamato in cielo. Le donne, vestite delle loro ampie gonne, si succedono alla pialla e al trapano, alla sega circolare e alla saldatrice, con una perizia che stupisce Porco Rosso e lo vede, poco dopo, spettatore attonito ed esecutore dell'unico lavoro non qualificato necessario al momento: cullare un neonato. La lavoratrice più orgogliosa è forse proprio la giovane Fio: lei è l'ingegnere capo dell'azienda e il suo compito è ridisegnare il progetto dell'idrovolante praticamente distrutto. Marco si scandalizza di fronte all'ipotesi di mettere il suo amato veicolo nelle mani di Fio e di fronte al dubbio di lei, se perché troppo giovane o perché femmina, risponde entrambe le cose. Fio non può smettere di essere femmina, ammette candidamente, ma può dimostrare il proprio valore e la propria perizia. Marco impiegherà poco tempo a riconoscere che il progetto di Fio è ottimo e che sorprendente è la disinvoltura con cui maneggia gli attrezzi da meccanico: infine, la voce fuori campo di Fio ci informa che sarà lei, anni dopo, a diventare titolare della Piccolo S.p.a. Insomma, vediamo trionfare senza forzature e senza edulcorate accondiscendenze un modello sociale che riconosce alle donne ciò che nessuno, ragionevolmente, potrebbe più negare loro, ossia la capacità di svolgere mansioni faticose o complesse, il diritto di essere economicamente autonome, il dovere di portare a termine il proprio compito. Tutto ciò sembra così scontato da non assomigliare a una conquista o a un insieme di diritti da rivendicare con forza e difendere, ma così non è, se la missione dell'astronauta Samantha Cristoforetti è stata salutata sui social network con commenti come "Secondo me ammacca la navicella alla prima retromarcia" o con i calcoli approssimativi dei mesi che avrebbe impiegato a parcheggiare l'astronave.


Insomma, la promessa di Miyazaki di non tornare a creare meraviglie dopo Si alza il vento è particolarmente triste, se si considerano i valori di civiltà e progresso umano di cui i suoi film sono naturalmente e tenacemente portatori: e la dignità delle donne è solo uno tra i tanti.