sabato 5 dicembre 2015

Le condizioni materiali della vita: "Blue Jasmine"


Due sorelle, Ginger e Janet/Jasmine: pur provenendo entrambe dallo stesso retroterra sociale e familiare, si ritrovano da adulte ad appartenere a due mondi enormemente distanti. Ginger, bassina e mora, vestita in modo casual e un tantino cafone, fa la cassiera in un supermercato di San Francisco. Jasmine, alta e bionda, estremamente elegante e dotata di accessori costosi, è la moglie di un pezzo grosso della finanza. La rovina della famiglia di Jasmine la spinge verso la sorella umile e salariata, in cerca di ospitalità e aiuto economico. Ormai vedova e povera, reduce da un grave esaurimento nervoso che ancora la disturba, deve reinventarsi una vita, preferibilmente non umile, e quasi ci riesce. Quasi.
In "Blue Jasmine", un Woody Allen reduce dallo scialbo tentativo di ritrarre le classi subalterne e la bellezza della vita semplice e quotidiana nel tremendo "To Rome with Love", torna a fare ciò che sa fare meglio: raccontare le vite patinate ma spesso meschine della borghesia. Rispetto per esempio a "Match Point", vediamo nel film interpretato da Cate Blanchett una classe alta meno stereotipata e vista con occhio meno benevolo. Mentre nel film del 2005 l'alta borghesia è formata di individui goderecci ma tutto sommato generosi, immancabilmente vittime della cupidigia dei più poveri (qualcosa mi ricorda "Il capitale umano"...), in "Blue Jasmine" è proprio dalla famiglia di Janet/Jasmine che si dipana la rovina, anche per la sorella salariata e il marito operaio. Infatti, la bionda Janet è vedova perché il suo geniale marito si è impiccato in cella, luogo in cui si trovava dopo un'indagine dell'FBI, che lo aveva rivelato come un ladro e un truffatore, capace di grandi donazioni e filantropia ma con soldi sottratti senza scrupoli anche a piccoli investitori. L'aspetto più doloroso della vicenda è che l'umile sorella Ginger aveva avuto, con suo marito, la chance di elevarsi dalla sua condizione sociale: avevano vinto un'enorme somma e, con fraterna fiducia, l'avevano affidata agli investimenti del cognato. Così, la famiglia più ricca ha continuato ad arricchirsi a discapito della più umile, che ha visto sfumare l'occasione di una vita, e tutto ciò nonostante il legame tra le due donne. Ginger non ne fa una colpa alla sorella, perché crede alla versione di lei: il ladro era lui, lei non sapeva nulla. Ma Janet/Jasmine è un personaggio "fasullo" (come viene a più riprese definita nel film stesso) fin dal nome, e la pervasività della sua falsità esploderà con tutte le sue conseguenze (e, retrospettivamente, rivelerà dei retroscena occulti) solo verso il finale.
Una scena mi è risultata un po' plastificata, un po' "film di Natale", ed è quella in cui Ginger e Chili, dopo la riconciliazione, giocano come bambini con un pezzo di pizza, mentre Janet si avvia col trucco colato e gli psicofarmaci in mano verso l'ultima tappa della rovina. Ad uno sguardo frettoloso, quella scena può trasmettere uno pseudo-significato, cioè un vuoto di significato, un luogo comune buono solo a ripulire la coscienza delle classi alte e a mantenere saldo il giogo sulle classi subalterne: quando si è più poveri si è più felici. Onestamente, non ritengo Woody Allen capace di una tale banalità e di una tale malafede, e la mia lettura mi pare dimostrata dal percorso compiuto dalla tragedia attraverso le vite delle due protagoniste: anche all'inizio del film Ginger era povera, e lo è ancor di più dopo essere stata truffata dal cognato. Viceversa, Janet/Jasmine è infelice sia all'apice della sua ricchezza, quando i lussi e la non-necessità di lavorare non bastano a risarcirla dei continui tradimenti del marito, sia una volta disintegrato il suo patrimonio. In realtà, la correlazione degli avvenimenti con la felicità in "Blue Jasmine" segue la traccia altrettanto borghese ma molto meno perversa del "sentimento": le due donne riescono a ricavarsi un pezzetto di felicità solo nell'illusione o nella concreta realizzazione dell'armonia di coppia e/o familiare. Il fattore economico è conteggiato per lo più come simbolo di altro, degli abiti casual in luogo delle borse Louis Vuitton, del lavoro come segretaria da un dentista piuttosto che quello di antropologa o di arredatrice. Ancora una volta, non è la ricchezza a fare la felicità né l'infelicità, ma a essere la spia visibile di un atteggiamento interiore della protagonista, delle sue ambizioni frustrate, del suo attaccamento ai beni materiali ma soprattutto ad una più alta concezione di sé. In un dialogo bellissimo spiega per quale ragione odiava l'idea di lavorare come commessa in un negozio di scarpe: non è tanto il basso stipendio rispetto alle rendite astronomiche a cui l'aveva abituata il marito truffatore, quanto l'umiliazione di dover servire donne dell'alta società che fino al giorno prima la invitavano ai loro ricevimenti. Umiliazione a cui Ginger, nata e rimasta in una classe sociale che la costringe a vendere il proprio lavoro per vivere, non avrebbe potuto sottrarsi. È questo che Jasmine non riesce a superare: non tanto la privazione materiale della ricchezza (vende le sue pellicce e i suoi gioielli) quanto la sofferenza mai sperimentata prima dell'impotenza sociale, dell'improvvisa povertà che di colpo le ha tolto la possibilità di scegliere che professione praticare, in che luogo abitare, come trascorrere il suo tempo. Il legame tra condizioni materiali della vita e risultati "immateriali" (frequentazioni, attività, spostamenti, svaghi) è mostrato con forza ma altrettanta attenzione è dedicata alla lotta interiore di Janet contro Jasmine, della donna contro il personaggio che ha fatto di sé, con il suo orgoglio e il suo calcolo, la sua pretesa di superiorità e la sua superba incapacità di ammettere la sconfitta.

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